Se non volete farla per amore (dell’Europa), fatela per
denaro; se non la volete fare nel segno un po’ retorico dell’Unione europea,
fatela nel segno tutto affaristico del mercato unico. Quale che ne sia la spinta,
ideale –una visione federale dell’integrazione europea-, politica –una maggiore
autonomia rispetto agli Stati Uniti– o meramente pratica –evitare gli sprechi e
recuperare risorse-, perseguire la difesa europea è cosa buona e giusta.
Stiamo parlando d’un sacco di soldi, mica di bruscolini: gli
sprechi che le duplicazioni delle difese comportano nell’Ue ammontano a 120
miliardi di euro l’anno, quasi la metà del totale della spesa militare dei 28 e
quasi l’equivalente del bilancio dell’Unione, circa l’1% del pil europeo.
Lasciamo, dunque, da parte i discorsi federalisti, che non
sono popolari di questi tempi. E lasciamo pure da parte le tentazioni d’antitesi
ormai datate Europa / America. I volani del risparmio e dell’efficienza dovrebbero
bastare per spingere verso l’integrazione la difesa europea, lungo le vie
maestre della standardizzazione e dell’armonizzazione, di ricerca e sviluppo a
fini non solo militari ma pure civili –più tecnologia, meno armi-.
Se n’è discusso ieri a Torino, in un dibattito nazionale per
una politica estera e di difesa comune, organizzato a poco più di un mese dal
Vertice di dicembre dedicato proprio alla difesa europea: dibattito, molto
ampio, che s’è dipanato tra qualche reticenza e qualche ipocrisia, come se
l’obiettivo di una politica estera e di difesa comune andasse esposto con
cautela e quasi giustificato, per evitare di mettere sul chi vive i militari,
da una parte, e l’industria, dall’altra.
Il vice-presidente della Commissione europea Antonio Tajani,
responsabile dell’industria, fornisce il quadro di quel che vale l’apparato
militare-industriale nell’Unione: 96 miliardi di euro di fatturato nel 2012, 23
miliardi di export extra Ue, 400 posti di lavoro diretti, oltre un milione
nell’indotto, in un mercato che resta poco unico, perché l’80% degli appalti
sono nazionali.
Ma ci sono un mare di duplicazioni e inefficienze: 16 le
fregate europee, contro una sola americana; 17 i carri europei, contro i due
americani. Così, l’Unione non può sfruttare le economie di scala. Risultato
–riferisce Giovanni Brauzzi, vice-direttore generale Sicurezza, al Ministero
degli Esteri- che i 28 spendono per la difesa il 50% di quanto spendono da soli
gli Stati Uniti, ma ne ricavano una capacità militare complessiva pari al
10/15% della capacità militare americana.
Dopo il Consiglio di dicembre, la cui bozza di conclusioni
non vola alto, la Commissione europea produrrà un piano d’azione. Così, il tema
della difesa europea andrà a ingolfarsi in un 2014 dell’Unione denso di
appuntamenti –elezioni europee, rinnovo dei vertici delle Istituzioni, semestre
di presidenza italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue -, come pure di anniversari
significativi.
Due esempi: nel 1914, un secolo fa, scoppiava la Grande
Guerra, una sorta di guerra civile europea; nel 1954, 60 anni fa, falliva il
progetto della Comunità europea di difesa.
Anche alla luce della storia, affrontare il tema della
politica estera e di difesa comune solo nell’ottica mercantilistica è
fuorviante. Ci stanno dietro i discorsi del rapporto Europa-America e del ruolo
della Nato e della percezione e della natura delle minacce alla nostra
sicurezza.
Ma allora bisognerebbe affrontare le questioni d’ingegneria
istituzionale dell’Unione europea. E sciogliere il nodo della sovranità nazionale
evidenziato da Piero Fassino: una prerogativa che dovrebbe essere
anacronistica, nel contesto dell’integrazione e della globalizzazione.
Le questioni istituzionali restano in filigrana nel dibattito
di Torino - una tappa del percorso ‘Politically.eu’ -: c’è l’alternativa tra
riforme dei Trattati e sfruttamento di tutte le potenzialità previste dai
Trattati attuali, accantonata perché ingombrante rispetto all’obiettivo più
concreto e meno ambizioso, cioè il completamento del mercato unico della difesa
europea. Può pure andare bene, purché alla fine almeno questo si faccia.
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