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mercoledì 27 novembre 2013

Il lavoro fa male alla carriera: uno studio avverte i 'workaholic'


Scritto per Media Duemila online il 27/11/2013

Ecco uno studio di quelli che dimostrano “scientificamente” ciò che tutti per esperienza sanno o intuitivamente sospettano: eppure, i risultati fanno colpo lo stesso. Anche se – sia messo a verbale - io sono convinto, e voglio restarlo, che non sia vero quasi niente di quel che i ricercatori dell’Università di Padova affermano.

L’asserto è che lavorare troppo può danneggiare la carriera. Non lo dice una congrega di furbetti o pelandroni, ma uno studio che ha preso in esame 322 lavoratori di un'azienda privata per un periodo di 15 mesi: un campione molto limitato –quell’azienda può essere un caso a sé e il pubblico impiego non è sondato-, ma non facciamo i pignoli.

A renderne conto giorni fa è stato il tabloid britannico Daily Mail, senza approfittarne per infierire sullo stereotipo degli italiani sfaticati. Ripresa dalla stampa italiana, la notizia è stata molto ‘cliccata’, ad esempio, sul sito del Sole24Ore, da dove ne ricaviamo lo spunto.

L'allarme dovrebbe mettere in guardia gli stakanovisti: chi lavora senza tregua, fa straordinari a oltranza e rimane fino a tardi in ufficio non si illuda di avere più successo e promozioni. Ma in realtà un conto è lavorare molto e bene da buon stakanovista e un conto è essere “workaholic”, lavorare tanto e produrre poco (e quel poco magari male).

I ricercatori di Padova notano che il "workaholism" è dannoso alla salute del lavoratore ed anche alla performance in ufficio.  Oltre ad aumentare lo stress psicologico e fisico, lavorare in modo "compulsivo" riduce l’efficienza e aumenta pure le assenze per malattia.

E' definito "workaholic" chi lavora sia ossessivamente che compulsivamente, con entrambe le caratteristiche presenti ad alto grado. Il "workaholic" fa troppe ore straordinarie, si porta il lavoro a casa e dedica troppo spazio e attaccamento emotivo al proprio lavoro, così che ha troppo poco tempo per recuperare energie fisiche e mentali.

Gli sforzi dedicati al lavoro devono essere seguiti –ricorda lo studio- da un’adeguata fase di "distensione" o "ripresa" per assicurare un ottimo stato di salute e di funzionalità. Il che, detto per inciso, vale pure per gli sforzi nello sport o in qualsiasi altro ambito, anche il più piacevole.

Il team dell'Ateneo di Padova ha seguito i lavoratori di un'azienda di ingegneria meccanica del Nord Est nell'arco di 15 mesi (dal dicembre 2010 al febbraio 2012). Ciascun lavoratore ha compilato questionari che hanno permesso di stabilire fino a che grado avesse comportamenti "workaholici". Lo stress psicofisico è stato misurato con rapporti medici, valutazioni delle performance da parte di un supervisore, numero di assenze per malattia

Conclusioni: il "workaholism" induce a lavorare magari più duramente dei colleghi e per molte più ore, ma lo stress auto-inflitto alla fine riduce la performance e costringe ad assentarsi più spesso dal lavoro. Non ne vale la pena: fa male alla salute e non fa bene alla carriera.

Ma di qui a rovesciare l’asserto, affermando che lavorare meno fa stare meglio e fa prendere i galloni più in fretta, c’è un passo di qualunquismo che non voglio fare (e che neppure i ricercatori di Padova fanno). E se tutti noi abbiamo esperienza di un collega che non fa nulla e diventa capo, sappiamo bene che non sempre sul lavoro (e nella società) le logiche sono quelle del merito. E lì essere stakanovisti o ‘workaholic’ c’entra poco.

E poi ciascuno di noi ha pure l’esperienza di un collega bravo, che s’impegna e che fa carriera, senza che nessuno possa fargli le pulci. Eccheddiavolo!, spezziamola una lancia per gli stakanovisti. O questo è già un segno che siamo sulla via dei ‘workaholic’?

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