Scritto per Il Fatto Quotidiano del 14/06/2011
Della Siria, si parla un sacco: sui giornali, alla tv, sui siti, nei vertici internazionali e nei corridoi della diplomazia multilaterale, all’Onu e all’Ue. Ieri, il premier italiano Berlusconi ha denunciato “una situazione difficile e preoccupante” (e non si riferiva a quella del suo governo, dopo la sberla dei referendum). Al suo fianco, il premier israeliano Netanyahu, in visita a Roma, annuiva e chiedeva “la fine del massacro”.
Qualsiasi cosa avvenga, della Siria si parla e basta: cade la roccaforte dei ribelli Jisd al-Shughur, elicotteri e carri del regime vanno all’attacco, i combattimenti sono furiosi e cruenti: Londra e Parigi chiedono all’Onu una presa di posizione “chiara”, ma neanche la risoluzione franco-inglese appoggiata dagli Usa minaccia il ricorso alla forza –e comunque rischia di non passare, perché Mosca e Pechino non la vogliono-.
La Siria non è la Libia, che, per un po’, ma mica a lungo, un mese giusto giusto, se n’è parlato e poi la comunità internazionale, con l’avallo dell’Onu, ha cominciato la sua gragnuola di razzi e bombe. E i morti, che fino a quel punto erano, si diceva, 10mila, sono saliti –la stima è dell’Onu- a 15mila.
Intandiamoci, di tutto il parlare che della Siria si fa, mica tutto è oro colato: le bufale si sprecano, cominciando da quella di Amina Araf, presunta blogger lesbica siriana, nome d’arte già di per sé improbabile di ‘Gay Girl in Damascus’, la notizia del cui rapimento aveva creato ansia e allarme. Tutto falso, il rapimento, i racconti, anche Amina: Tom MacMaster, 40 anni, blogger americano, s’era inventato tutto e adesso lo ammette.
Nelle cronache della Siria, come in quelle della Libia –ve le ricordate?, le fosse comuni che non erano fosse comuni; le vittime a bizzeffe della repressione che, se c’erano, erano di meno; i morti sotto i raid della Nato, che il regime esagera sempre-, la propaganda si fa da entrambe le parti: Damasco, come Tripoli, racconta le atrocità degli insorti, a fini più interni che internazionali –tanto, fuori non ci crede nessuno-; ma i manifestanti anti al-Assad, come gli insorti anti-Gheddafi, gonfiano le dimensioni della reazione per risvegliare le coscienze d’un’opinione pubblica internazionale narcotizzata e insensibile alle violazioni dei diritti dell’uomo.
Però, poi, nella crisi libica qualcosa s’è mosso; in quella siriana, no e non si muoverà: due pesi e due misure? Sì, certo. Ma mica volete comparare, al mercato della ‘real politik’, il Paese del colonnello dittatore con quello del presidente erede? La Libia era, ed è, un Paese politicamente e diplomaticamente isolato dal resto del Nord Africa e dalle vicende medio-orientali. La caduta, o meno, di Gheddafi non altererà gli equilibri nella regione; e non preoccupa più di tanto Israele.
Inoltre, e forse soprattutto, la Libia è un Paese che produce ed esporta energia in grande quantità, gas e petrolio: mica la si può lasciare nelle mani di un dittatore un po’ eccentrico, che si mostra in tv poco abile con gli scacchi –immagini di ieri, quasi farsesche-, ma che è pure capace di negare gas e petrolio ad amici e clienti di un recente passato che ora lo hanno tradito (e che, come se non bastasse, lo bombardano ogni giorno).
Invece, la Siria non ha tesori di energia, ma è un Paese chiave nei fragili equilibri mediorientali: ha con Israele un confine conteso, sulle alture del Golan, teatro nei giorni scorsi di scontri sanguinosi, utili –se il termine è concesso per una carneficina- a entrambi i governi; ha un ruolo in Libano che la formazione di un esecutivo a trazione hezbollah accresce in modo inquietante; ha rapporti stretti con l’Iran; e ha una frontiera porosa con la Turchia, che ne accoglie i profughi. Se cade al-Assad, il castello di carte delle speranze di pace in Medio Oriente può venire giù. E allora nessuno ci pensa a dargli una spallata. Meglio darla a Gheddafi, che pochi lo rimpiangeranno: “Mollatelo”, intima così Hillary Clinton all’Unione africana.
martedì 14 giugno 2011
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