Brutto segno, quando i presidenti americani giocano a golf: significa, spesso, che hanno dei problemi e che ne cercano una soluzione tra una buca e l’altra. Così, la partita a golf tra il presidente Barack Obama, che non è un campione, e lo speaker della Camera, il repubblicano John Boenher, leader dell’opposizione, è stata subito battezzata dai media “il summit del golf": un incontro organizzato per cominciare a discutere una soluzione bipartisan sui tagli da apportare al bilancio per contenere il debito pubblico.
Niente di nuovo sotto il cielo americano. Quando hanno dei grattacapi, i presidenti del ‘dopo Reagan’ (lui, per rilassarsi, andava a cavallo) fanno talora ricorso alla ‘diplomazia del golf’. I Bush padre e figlio, in realtà, preferivano andarsene a pesca, durante le vacanze nella casa di Kennebunkport, ma un match a golf in famiglia era fra i riti del week-end dei compleanni a inizio giugno –giocava pure Jeb, il fratello più giovane, per otto anni governatore della Florida-.
Che, poi, neppure bisogna esagerare i fastidi di Obama, che ci sono, ma sono meno oggi di due mesi or sono, a guardare almeno gli indici di popolarità. L’eliminazione del capo di al Qaida Osama bin Laden ha ridato smalto alla presidenza, nonostante la crisi continui ad appannare l’America, fiaccandone il morale e togliendole fiducia in se stessa. Nella campagna elettorale per le presidenziali 2012, che lui stesso ha già lanciato, il primo nero alla Casa Bianca deve, per il momento, temere i sussulti dell’economia più che la forza dei rivali. I repubblicani sono ancora alla ricerca d’un’alternativa credibile: i candidati alla nomination affrontatisi lunedì scorso nel primo dibattito pubblico sono ancora tutti dei ‘nani’ politici (e non solo perché erano sette).
Certo, può apparire stridente il contrasto fra le immagini di Obama che ‘va in buca’ con Boehner e le foto di Tripoli sotto i bombardamenti della Nato o di Misurata ancora teatro di combattimenti –pure ieri, vi sono state perdite fra i ribelli-. Ma il presidente degli Stati Uniti, per quanto abbia responsabilità globali più di qualsiasi altro leader politico, non può esserne schiacciato. E Obama, infatti, si prende un’altra licenza: dedica alla Festa del Papa, che negli Usa si celebra oggi, il suo video settimanale e afferma che “il lavoro del papà è il più duro e il più gratificante”.
Quello del presidente è una grana via l’altra: l’economia che pareva ripartita e che sembra invece frenare di nuovo; l’occupazione che sale con più lentezza del previsto; la riforma della sanità che non scalda i cuori degli americani. E, poi, c’è la novità di un Paese che s’è stancato, si direbbe, d’essere il gendarme del Mondo: contesta ad Obama l’impegno in Libia, non ha pazienza con gli alleati che parlano tanto e fanno poco e ha voglia di cominciare a venirsene via in fretta dall’Afghanistan.
Il Congresso, e non solo i repubblicani, rimprovera al presidente di non averlo consultato prima di decidere l’intervento in Libia. E il New York Times aggrava la posizione di Obama, denunciando che la Casa Bianca sentì il parere di du legali, che tutti e due suggerirono un passaggio parlamentare, e poi fece lo stesso di testa sua.
Ci vorrebbe qualche buona notizia, oltre che dal campo di golf, anche dai fronti di guerra. Invece, la Libia, che doveva essere un conflitto lampo, che quando il Congresso se ne fosse accorto sarebbe stato già finito, è andata in stallo. E i ribelli battono cassa: i soldi sono finiti, fa sapere da Bengasi il Consiglio nazionale transitorio, e l’Occidente, che pure ha appena promesso 200 milioni di dollari a vario titolo, non ci aiuta.
L’Afghanistan è pure peggio, con i talebani all’offensiva e al Qaida che si riorganizza dopo l’eliminazione di bin Laden (che nel frattempo ha acuito le tensioni diplomatiche tra Washington il Pakistan). Il presidente Karzai, con cui Obama non ha proprio feeling, denuncia che gli americani trattano con i nemici: una volta, il popolo a stelle e strisce sarebbe insorto contro una cosa de genere; oggi, spera che i negoziati ci siano davvero e che vadano in porto presto. Così, i ‘ragazzi’ tornano a casa e, magari, rimettono in moto l’Unione.
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