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giovedì 21 luglio 2011

Afghanistan: tutti a casa un po' per volta, Karzai resta solo

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 21/07/2011

Un po’ per volta, vengono via tutti. E restano le forze di sicurezza afghane, a provare a garantire la pace in un Paese dove i talebani, da quando si parla di ritiro e di trattative, hanno ridato vigore alla loro offensiva. Da ieri, le truppe afghane hanno il controllo d’una città chiave del Sud, Lashkar Gah, capitale della provincia d’Helmand, turbolenta e pericolosa, dove c’è l’ospedale di Emergency al centro di polemiche e di perquisizioni. E, pochi giorni or sono, era toccato ad un’intera provincia, Bamiyan, una delle più sicure, nel centro del Paese, a ovest della capitale, l’unica governata da una donna, Habiba Sorabi, e abitata da una minoranza, gli hazari, perseguitata dagli integralisti e, quindi, loro ostile: un tempo, era famosa per i giganteschi buddha tagliati nella pietra (e fatti saltare proprio dai talebani iconoclasti).

Il passaggio di consegne a Lashkar Gah e' coinciso con due attentati: uomini armati hanno attaccato un commissariato di polizia a Kandahar, sempre nel Sud, uccidendo quattro poliziotti, in uno scontro a fuoco durato nove ore; e a Mazar-i-Sharif, nel Nord, una delle città che dovrebbero essere presto affidate alle forze afghane, una bici-bomba ha ucciso 5 civili, tra cui un bambino, e ne ha feriti molti altri.

Fra le 7 areee che resteranno sotto esclusivo controllo afghano, secondo quanto previsto dal programma di transizione, Lashkar Gah e' quella più inquieta: un vero e proprio test della capacita' di Kabul di gestire una situazione ben lungi dall'essere pacificata. Annunciando l’inizio del ritiro, il presidente Usa Barack Obama aveva, del resto, riconosciuto: “Il lavoro non è finito, ma Kabul è più sicura”. E il capo di Stato Maggiore della difesa Usa, generale Mike Mullen, aggiungeva: “Con l’avvio della transizione, i rischi aumentano”.

Il piano era stato accolto bene dalla Nato (“Il ritiro graduale nasce dai progressi fatti”) e dal presidente Hamid Karzai –ma nè l’Alleanza nè Karzai avevano alternative-. I talebani avevano fatto spallucce: “La riduzione delle forze non è una soluzione, noi continuiamo la jihad”. Ma intanto si negozia, neppure troppo in segreto.

L’inizio del passaggio di aree del Paese sotto l’unico controllo delle forze afghane (per ora, due provincie, un distretto, 4 città, fra cui l’ ‘italiana’ Herat: complessivamente, neppure un decimo del territorio nazionale) ha coinciso con il ritiro dei primi americani: un reparto di 650 uomini dislocato a nord-est della capitale, avanguardia degli almeno 30 mila uomini che dovrebbero andarsene entro il settembre 2012, quando la campagna per le presidenziali entrerà nel pieno. E il ‘partiam partiamo’ contagia i francesi, che hanno recentemente subito cinque perdite in un giorno solo, e pure gli italiani, che sono a quota 40 caduti –gli ultimi due a luglio-. Il taglio dei militari all’estero da 9.250 a 7.000 si farà soprattutto in Afghanistan.

Per l’America, la fase di adattamento della strategia afghana è complessa. Prima dei suoi soldati, è partito il generale David Petraeus, l’uomo del ‘surge’ prima in Iraq e poi qui, chiamato a guidare la Cia al posto di Leon Panetta, andato a capo del Pentagono dopo l’uscita di scena di Robert Gates –prima missione, l’Afghanistan dove ha detto che “la sconfitta strategica di al Qaida è vicina”. Al posto di Petraeus, il generale John Allen.

Sulla riuscita dello sganciamento, pesano due incognite: la tenuta e l’affidabilità delle forze afghane e la capacità dei talebani di condurre l’offensiva che ha avuto, negli ultimi giorni, il suo acme nell’uccisione a Kandahar di un fratellastro del presidente Karzai e poi nell’attacco al suo funerale, con diverse vittime in una moschea. Le cronache delle ultime settimane sono un’alternanza di attentati e agguati, da una parte, e di successi della coalizione, come il raid del 30 giugno in cui fu ucciso uno dei capi della rete terroristica locale, Sirajuddin Haqqani.

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