Quando scendono dalle imbarcazioni che li hanno raccolti in
mare nei porti d’attracco, in Italia oppure in Grecia. Quando si accalcano alle
frontiere dei Balcani o si pigiano sui treni in Croazia oppure in Ungheria.
Neppure quando arrivano, accolti da una folla festante, a Monaco di Baviera o
altrove in Germania. Mai i migranti, e i rifugiati, ci appaiono attaccati ai
telefonini, per raccontare a chi hanno lasciato, o magari a chi li aspetta, le
loro traversie, le loro emozioni, che ce l’hanno fatta, che sono arrivati.
Anche i morti annegati nel Mediterraneo, o i morti di stenti
e magari di maltrattamenti sulle piste che al Mediterraneo conducono, o che ne
risalgono verso l’Unione europea, anche molti di loro non avranno avuto con sé
un telefonino cui affidare un saluto o un’invocazione.
Non c’è da stupirsene. Molti sono poveri diavoli, che tutto
quello che avevano lo hanno speso, e che tutti gli oggetti di valore che
possedevano hanno alienato, se non ne sono stati alienati, per pagarsi quei
viaggi della speranza e della paura. Alcuni hanno certamente mezzi e
possibilità, ma si sa che, in certe circostanze, è meglio tenersi addosso meno
cose possibili, ché quel che hai te lo portano via se non lo perdi.
Quell’immagine di umanità transumante senza telefonini è
l’ennesima riprova della grande diversità di quel flusso da altre masse in cui
abitualmente c’imbattiamo, le frotte di turisti, i cortei di protesta, le orde
di ultras intorno agli stadi. Tutte sempre dotate di telefonini, per selfie e
guida prima ancora che per comunicazioni –in genere, assolutamente superflue-.
E’ un indizio, se ce ne fosse bisogno, del loro disagio e
della loro estraneità; è una giustificazione, più futile di tante altre, del
nostro disagio e della nostra diffidenza nei loro confronti, così diversi, così
strani, così lontani adesso che ci sono vicini –lontani, in realtà, ci teniamo
noi, che a parole siamo così pronti a essere loro vicini se restano lontani-.
Se a sanare le differenze, a colmare le distanze, a medicare
le coscienze, bastasse un telefonino, verrebbe da lanciare una campagna:
“Regala un cellulare a un profugo”. Purché, poi, con quello, non pretenda di
chiamarci, magari per chiederci aiuto o semplicemente per farci sapere che c’è,
visto che di loro l’unica cosa che ci interessa è che se ne vadano. Altrove.
Anzi, meglio, che non arrivino proprio.
Anche Papa Francesco –dicono- non è fanatico dei cellulari.
Forse pure per questo, lui sembra capirli meglio di noi e ci incoraggia ad
accettarli.
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