Di sicuro, gli americani non possono lasciare che i russi
fermino lda soli ’avanzata del Califfo e rimettano in sesto il traballante
regime di Bashar al-Assad. Ma non possono neppure rischiare che gli jihadisti s’impadroniscano
di tutta la Siria e arrivino a Damasco: sarebbe il modo peggiore di sbarazzarsi
d’al-Assad. Così, gli Usa, dopo avere alzato un po’ la voce, ma neppure troppo,
quando è divenuta di dominio pubblico la presenza militare russa in Siria, che
certo il Pentagono non ignorava, hanno cambiato registro.
Il segretario di Stato Kerry vuole incontrare il ministro
degli Esteri russo Lavrov, che s’è detto “pronto”. E mentre Kerry consulta che
alleati europei più ‘pesanti’ – ’Italia non è nella lista-, il capo del
Pentagono Ashton Carter e il ministro della difesa russo Shoigu sono stati al
telefono per circa 50’: il primo colloquio diretto in oltre un anno, se le
statistiche del Washington Post sono corrette.
Il regime siriano capta l’aria e accetta di "andare
avanti" con il piano dell'inviato speciale dell'Onu, Staffan de Mistura,
per mettere fine al conflitto che dura da quattro anni e mezzo e ha fatto oltre
250 mila vittime e circa 6 milioni di rifugiati. Le linee guida risalgono
a Kofi Annan e prefigurano una fase di transizione, con un governo dotato di
pieni poteri, che “provveda ad avviare un dialogo, a redigere una nuova
Costituzione e a predisporre elezioni generali multi-partitiche, all’insegna
della continuità delle istituzioni statali e del perseguimento dei criminali”.
Perché il disegno vada avanti –dice l’ambasciatrice Laura
Mirachian- “occorre recuperare gli arabi del Golfo, rassicurare la Turchia,
sfruttare la disponibilità dell’Iran, e pure dell’Egitto” e, prima di tutto,
“raccogliere la sfida che sta lanciando la Russia”. Il movimento diplomatico
sta contagiando, in qualche modo, pure la Libia: l’inviato dell’Onu
Bernardino Leon spera di chiudere in Marocco un accordo fra i governi di
Tobruk, quello internazionalmente riconosciuto, e di Tripoli, d’ispirazione
islamista: lo sblocco potrebbe essere questione di ore –ma Leon altre volte ha
peccato d’ottimismo-.
Sul terreno, la Russia ha schierato quattro caccia nella
base aerea di Latakia, nella Siria occidentale, dove aveva già inviato
elicotteri, truppe, mezzi corazzati. Ma i lealisti continuano a subire rovesci:
nella base aerea di Abu al-Douhour, i miliziani del Fronte al-Nusra, emanazione
locale di al-Qaeda, e i loro alleati integralisti, ribelli ad al-Assad, e
nemici del Califfato, hanno passato per le armi 71 prigionieri governativi. La
base, caduta nelle mani degli insorti il 9 settembre dopo oltre due anni d’assedio,
era l'ultimo presidio del regime nella regione.
Informazioni che confermano la
drammaticità della situazione. E inducono al disgelo tra Usa e Russia.
Putin non s’è fatto smontare dalla levata di scudi iniziale americana: s’è
proposto come alleato nella guerra contro il terrorismo e ha posto il problema
che al-Assad sia parte del futuro della Siria, senza però porre vincoli di
ruolo e di tempo. E Obama è ora pronto a vedere se il russo bluffa o fa sul
serio.
Da Londra, Kerry valuta positivamente l'impegno russo contro
lo Stato Islamico in Siria, come parte delle "modalità per eliminare l'Is
con la massima rapidità ed efficacia", ma insiste che al-Assad deve farsi
definitivamente da parte. Però, i tempi della sua uscita di scena possono anche
essere decisi tramite negoziati. Quanto all’esodo dei siriani, che preoccupa
gli europei, forse Putin non ha torto quando sostiene che i siriani, più che
dal regime, ora scappano dal Califfo.
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