Scritto per Il Fatto Quotidiano del 24/10/2010
David Assange ci riesce di nuovo. Il fondatore di Wikileaks e il suo team documentano quello che tutti già sapevano, ma che molti fingevano d’ignorare: che in guerra muoiono pure civili, non solo militari, e che di efferatezze, o semplicemente di errori, ne fanno pure i ‘buoni’, non solo i ‘cattivi’. E, così, Assange offre di nuovo all’ipocrisia del mondo un’occasione per scaricarsi la coscienza: è stato un bagno di sangue. ”Davvero? Ma è tremendo. Chi l’avrebbe mai detto”.
Che le vittime civili in Iraq fossero un sacco era stato sempre chiaro: stime americane autorevoli, contestatissime dalle fonti ufficiali, avevano parlato, a un certo punto del conflitto, di oltre mezzo milione di iracheni morti (certo non tutti militari, chè la resistenza di quelli durò neppure 20 giorni, né tutti guerriglieri, che se no l’insurrezione contro l’invasione sarebbe stata presto stroncata).
La documentazione ora fornita da Wikileaks è quantitativamente impressionante: circa 400mila files, contro i 77mila afgani dell’estate scorsa e i precedenti scoop specifici del team Assange. Però, il computo delle vittime del conflitto è relativamente contenuto: dal 2003 al 2009, i morti sarebbero stati 109mila, di cui 66mila civili. Quasi un quarto dei civili, circa 15mila, sarebbero rimasti vittime di episodi finora sconosciuti.
Accanto alle storie già raccontate, saltano fuori verità che si sospettavano, ma che non si sapevano. Ad esempio, le forze armate americane, che lo hanno sempre negato, tenevano un registro, tuttora segreto, delle vittime civili, aggiornato giorno per giorno, dice John Sloboda di Iraq Blody Count, che se n’è fatto una contabilità non ufficiale. E ancora: i soldati americani, ai posti di blocco, sparavano senza farsi troppi problemi -681 le vittime civili accertate-, come del resto avevano già dimostrato vicende ampiamente documentate in cronaca.
Un migliaio di documenti riguardano opeazioni di routine degli italiani al fronte, 22mila Nassiriya. Sul caso Calipari, il funzionario dell’intelligence ammazzato da un soldato americano mentre andava all’aeroporto di Baghdad con la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena appena liberata, c’è del nuovo: il capo di una cellula di al Qaeda, preso nel 2005, racconta, con qualche discrepanza rispetto ai fatti accertati, di avere informato il ministero dell’interno iracheno, dopo avere incassato mezzo milione di dollari di riscatto, che l’auto degli italiani era imbottita di esplosivo.
Di gran parte delle uccisioni di civili, sarebbero responsabili le truppe irachene. I soldati americani spesso sapevano o tacevano; e, quando parlavano, erano i loro superiori a insabbiare denunce e inchieste: torture letali su detenuti, ben dopo lo scandalo di Abu Ghraib; esecuzioni sommarie; uomini mandati su piste minate, con la scusa di ripulirle, a verificare dove fossero gli ordigni. E poi c’è il CrazyHorse 18, l’elicottero Apache il cui equipaggio ammazzò un giornalista della Reuters ‘armato’ di telecamera –lo si sapeva-, ma freddò pure, sentito un avvocato militare, due iracheni che s’erano arresi.
Le fonti ufficiali statunitensi, britanniche e irachene minimizzano –“I documenti non rivelano nulla di nuovo”- e accusano Wikileaks di mettere in pericolo la vita di 300 informatori iracheni. Il Paese, 109mila morti dopo, resta nel caos e ha battuto, questo mese, il record mondiale di sterili negoziati per la formazione del governo: oltre 230 giorni dopo le elezioni del 7 marzo, l’intesa resta lontana fra Iyyad Allawi, un ex premier, il cui partito è stato quello più votato, e Nuri al-Maliki, il premier uscente, la cui coalizione sciita sfiora la maggioranza in Parlamento. Proprio al-Maliki, considera l’operazione di Wikileaks un siluro contro di lui.
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