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mercoledì 30 novembre 2011

Iraq: gli americani partono, rock, coca e slang restano

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 30/11/2011

Ovunque vadano, qualcosa lasciano, a parte distruzioni, lutti, sofferenze. Invasori o liberatori che siano, è una regola che vale nei secoli per chi s’installa in un Paese con la forza delle armi. Se ci resta a lungo, lascia, magari, la lingua, l’organizzazione sociale e l’ordinamento istituzionale –pensiamo ai romani e, poi, agli arabi-; se ci resta per poco tempo, qualche moda passeggera e, magari, qualche abitudine alimentare e qualche consumo culturale adattati ai gusti locali. Oggi, i soldati americani, rispetto agli eserciti delle potenze imperiali o coloniali dei tempi andati, possono pure contare sull’impatto massiccio dei media di massa, sull’infiltrazione di una cultura che è pervasiva e contagiosa a livello globale, prima ancora del loro arrivo.

Succede, magari, che i militari a stelle e strisce si dimentichino di lasciarsi dietro proprio quello che erano venuti a portare: così, in Iraq, e presto in Afghanistan, se ne vanno senza avere solidamente impiantato quella democrazia che erano partiti per esportare una volta si sarebbe detto sulla punta delle baionette e oggi sarebbe meglio (non dover mai) dire sulla canna dei carri armati. La democrazia, però, non è qualcosa che attecchisce con le armi e non prende neppure ovunque allo stesso modo: in Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ce la lasciarono, ma in fondo c’era già prima: loro erano venuti per ristabilirla, dopo l’esperienza devastante e aggressiva dei totalitarismi nazista e fascista; in Giappone, e più tardi nella Corea del Sud, se la lasciarono dietro.

Bushra Juhi, giornalista dell’Ap,racconta, in un reportage da Baghdad, che, dopo otto anni di presenza sofferta e contrastata –quasi 4.500 caduti, altri 500 circa della coalizione-, le truppe da combattimento statunitensi americane che stanno partendo dall’Iraq lasciano dietro di sé una democrazia zoppicante, e che s’ignora se e come e quanto sopravvivrà, e “amari ricordi di guerra”. Ai più giovani, restano “musica rap, tatuaggi e slang”. E chi scrivesse oggi da Kabul potrebbe offrire una testimonianza analoga-. In Europa, dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli americani ci lasciarono la Coca Cola, il boogie woogie, i jeans –e ancora resistono, adattati ai tempi. In Vietnam, da dove scapparono dopo dieci anni di conflitto e oltre 58mila perdite, il lascito, invece, fu poca cosa, o almeno rimase invisibile per molti anni. Ma sotto sotto i germi dell’americanizzazione hanno funzionato se oggi Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City, è la più americana delle città vietnamite e, probabilmente, non piacerebbe affatto all’eroe dell’indipendenza di cui porta il nome.

Le dinamiche e le geografie dell’esportazione militare di mode e costumi sono spesso indecifrabili. Pensiamo allo sport, che non ha risvolti politici diretti. Gli americani hanno lasciato in Giappone e nella Corea del Sud il baseball, che ha pure attecchito ad Anzio e in Romagna e in Olanda, ma altrove in Italia o in Europa poco o punto, mentre non sono riusciti a innestare, in nessun Paese, il loro football (a essere sinceri, uno dei riti più noiosi ed esoterici fra i giochi moderni), mentre il calcio dilaga ovunque nel Mondo, nonostante gli inglesi, all’epoca delle colonie, promuovessero più l’aristocratico cricket che il popolare soccer. Il baseball, poi, ha sue ‘basi’ anche in Paesi ‘anti-americani’, come Cuba e il Venezuela, dove era però arrivato prima delle ‘rivoluzioni’ castrista e chavista.

Certo, rispetto a 60 anni or sono, oggi è molto difficile distinguere l’influenza indotta dalla presenza militare da quella, più sottile e più pervasiva, della preesistente colonizzazione culturale compiuta dalle produzioni ‘made in Usa’ d’ogni tipo: chewingum e Coca Cola, jeans e Tshirts, musica, film e serie tv sono testimoni universali e indelebili d’una avvenuta conquista.

Juhi ci racconta Baghdad prima della partenza, il 31 dicembre, dell’ultimo soldato combattente americano. La loro influenza è fortissima sui circa 16 milioni di iracheni ‘under 19’ (la metà della popolazione, 8 milioni nati dopo l’invasione), calcola Brett McGurk, ricercatore del Council on Foreign Relations di New York e prima consigliere dell’Ambasciata degli Usa in Iraq. Teen-agers che si chiamano ‘punky’ o ‘hustlers’ e hanno abitudini e consumi del tutto simili a quelli dei loro coetanei americani o europei: ascoltano 50 Cent o Eminem, guardano i film di vampiri della serie Twilight, mangiano pizza e hamburger, girano sui rollerblade e si rasano i capelli alla marine. Mode che resisteranno in Iraq?, o traballanti come la democrazia?

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