Il conto alla rovescia procede: - tre settimane, -
21 giorni, - 2 dibattiti tv (dei 4 programmati) all’Election Day del 6
novembre. E l’incertezza, invece di dissiparsi, s’ispessisce: 270towin, il sito
che tiene il conto di quanti Grandi Elettori i due candidati alla presidenza
degli Stati Uniti possono considerare sicuri, ha riportato il conteggio a 201
per Barack Obama e 191 per Mitt Romney, cioè là dove eravamo a inizio
settembre, con 11 Stati in bilico.
Il sito s’è dunque rimangiato la mossa fatta a
inizio ottobre, quando ne aveva dati 237 a Obama, attribuendogli Pennsylvania e
Michigan ora di nuovo incerti. E’ l’effetto del primo dibattito tv, quello in
cui uno spento e remissivo presidente era stato nettamente battuto da un efficace
e convincente sfidante.
Poi, la scorsa settimana, cè stato il confronto dei
vice: meglio dei capi, come spettacolo, più vivaci e più combattivi. Joe Biden,
il democratico, vice in carica, e Paul Ryan, il rivale repubblicano, partivano
da posizione rovesciate rispetto ai loro ‘principali’: favorito, sulla carta,
Ryan, più ferrato in economia, più aggressivo, più brillante, rispetto a Biden,
incline alla gaffe, più anziano, solido in politica estera.
Ma Biden ha fatto meglio del previsto; e Ryan non ha
deluso. Alla fine, un sostanziale pareggio, con i sondaggi a caldo che davano
risultati disparati l’uno rispetto all’altro, testimoniando, soprattutto, la
relativa inattendibilità di certi rilievi a tambur battente. Obama ha subito
ringraziato, per la bella prestazione, il suo vice, che non ha ‘toppato’. Il
ticket repubblicano non ha guadagnato ulteriore terreno, ma neppure ne ha
perso.
In questa fase della campagna presidenziale, la tv
si conferma tuttora strumento centrale, molto più di facebook e twitter che
pure la facevano da padroni fino a settembre. E l’attenzione è tutta puntata
sulle prossime date: domani, c’è il secondo dibattito fra Obama e Romney,
all’Università di Hofstra a Hempstead, nello Stato di New York, con le domande
del pubblico, e la prossima settimana, il 22, il terzo e ultimo all’Università
di Lynn, a Boca Raton, in Florida.
Il finale di partita s’annuncia incandescente: il
presidente ammette di essere stato troppo ‘educato’ nel primo dibattito; e fa
intendere che ne terrà conto nei prossimi duelli. E i sondaggi indicano che lo
sfidante ha annullato, a livello nazionale, lo svantaggio e che è anzi passato
in testa (i margini d’errore dei rilevamenti rendono, però, il dato
statisticamente irrilevante). Il presidente resta avanti in alcuni Stati
chiave, come Ohio e Florida; a avrebbe ricevuto i tre quinti dei suffragi già
espressi, là dove si può votare prima.
Il sistema dei Grandi Elettori, in questo momento,
favorisce Obama. Il presidente degli Stati Uniti, infatti, non lo eleggeranno
100 milioni di cittadini americani, uno più, uno meno, andando alle urne il 6
novembre. I cittadini non eleggono il presidente, bensì i Grandi Elettori del
loro Stato, ripartiti in funzione della popolazione. E sono poi i 538 Grandi
Elettori - maggioranza, 270 - a eleggere il presidente: tutti quelli di uno
Stato vanno al candidato che, anche per un solo voto popolare, vince in quello
Stato. Ovviamente, per rendere le cose semplici, ci sono eccezioni: il Maine e
il Nebraska ripartiscono i loro Grandi Elettori su base proporzionale, fortuna
che sono pochi, 4 e 3 rispettivamente.
Allora quel che conta, sono i Grandi Elettori ancora contesi: Obama
e Romney, ormai, fanno campagna solo nei loro Stati. Sulla mappa di 270towin, dove gli Stati blu sono quelli sicuramente
democratici e i rossi quelli sicuramente repubblicani, restano beige New
Hampshire (4) e Pennsylvania (20) nel New England; Virginia (13), North
Carolina (15) e Florida (29) nel Sud; Ohio (18), Iowa (6), Michigan (16) e
Wisconsin (10) tra MidWest e Grandi Laghi; Nevada (6) e Colorado (9) sulle
Montagne Rocciose.
Non tutti gli Stati in
bilico hanno la stessa valenza. Vi sono quelli tradizionalmente incerti,
cosiddetti ‘swing States’, che votano alternativamente democratico o
repubblicano: esempi tipici, l’Ohio, lo Iowa, la Virginia, la Florida; e vi
sono quelli contesi questa volta per ragioni contingenti, che possono essere
l’origine di un candidato o la popolarità di certe sue idee in una certa area.
Di tutti gli ‘Stati
chiave’, i due ritenuti più significativi sono Florida e Ohio: per i
repubblicani, conquistare la Casa Bianca senza vincere l’Ohio è un tabù; per
chiunque, arrivarci senza avere vinto in almeno uno dei due è praticamente
impossibile.
Perché questo sistema
dei Grandi Elettori, invece del suffragio universale diretto? Negli equilibri
costituzionali statunitensi, il meccanismo ha una valenza federale –i Grandi
Elettori di ogni Stato corrispondono ai suoi deputati alla Camera più i due
senatori, così che anche i più piccoli ne hanno almeno 3- e serve ad evitare
che un presidente venga eletto con i voti solo di un’area geografica. Inoltre,
il sistema è dinamico: il peso degli Stati varia in funzione degli andamenti
demografici, l’Ohio ad esempio ne perde, come tutto il Nord-est in generale, la
Florida ne acquista, come il Sud.
C’è però un neo: il
sistema consente l’elezione di un presidente che abbia avuto meno voti popolari
del suo rivale. E’ già successo tre volte, due nell’ ‘800 e la terza,
recentemente, nel 2000, quando George W. Bush andò alla Casa Bianca avendo
vinto la Florida per 250 voti, nonostante Al Gore avesse avuto su scala
nazionale mezzo milione di suffragi in più. E, da come si sono messe le cose,
nessuno può escludere che accada di nuovo questa volta.
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