Dopo Katrina, nessuna Amministrazione statunitense prenderà
più sotto gamba un allarme uragano:
nell’agosto 2005, Katrina, forza 5, sommerse sotto la sua
furia mezza New Orleans, fece centinaia
di vittime dalla Louisiana alla Florida e spazzò via la residua
credibilità di George Bush, da poco
rieletto presidente, ma già sfiduciato dall’America per le
sue bugie ormai smascherate sulle armi di
distruzione di massa irachene. Non c’è da stupirsi, quindi,
delle precauzioni per l’arrivo di Sandy,
che sarà pure solo forza 1, ma colpisce aree di solito
troppo a nord perché gli uragani ci arrivino,
Washington, la Pennsylvania, il New Jersey e New York: di
solito, le perturbazioni, quando
arrivano lassù, sono al massimo delle tempeste tropicali.
Un uragano a quelle latitudini, lungo la Costa Atlantica, è
evento raro, non inedito. Nel settembre
2003, arrivò a Washington Isabel. Katrina non c’era ancora
stata, ma l’Unione era allora sul chi
vive permanente: da sei mesi, l’America era in guerra in
Iraq; da due anni, era in guerra contro il
terrorismo, dopo gli attacchi dell’11 Settembre 2001; e
Washington, l’anno prima, aveva conosciuto
la grande paura del cecchino che ammazzava per la strada a
casaccio uomini, donne e bambini.
Se quello era il clima, con gli allarmi non si scherzava: in
casa erano pronti i kit d’emergenza,
fiammiferi a prova d’acqua, giacche termiche, biscotti e
scatolette, medicinali e cerotti.
La notte che Isabel doveva passare, le istruzioni impartite
erano state dettagliate: andare a dormire
nei basement, che noi chiameremmo cantine, tenere a portata
di mano i kit, avere pronte all’uso
torce elettriche e fornellini da campeggio. Come oggi a New
York, negozi, scuole, uffici pubblici,
l’Amministrazione federale, i trasporti pubblici erano stati
‘chiusi per uragano’: dalle 6 di sera,
strade deserte.
Seguimmo le indicazioni alla lettera. Cioè, quasi: infatti,
a dormire, non scendemmo in cantina, ma
ci accampammo nel living. Il vento soffiava forte, la
pioggia veniva giù a secchiate. La notte passò
relativamente tranquilla, tra sinistri scricchiolii e sordi
tonfi. Al risveglio, tutto pareva normale:
non c’era la luce, ma eravamo stati preavvertiti del
possibile disagio. La radiolina portava notizie
relativamente rassicuranti: il peggio era passato, la
tempesta si stava spegnendo risalendo a nord
(andrà a morire in Canada); c’erano stati danni, ma, a
Washington, non più di due o tre vittime.
Quando misi il naso fuori, però, trasecolai: tutti gli
alberi della strada erano stati abbattuti e,
venendo giù, avevano trascinato a terra i pali della luce e
spezzato i fili, spesso ancora aerei.
L’albero nel giardino del vicino, che sembrava solidissimo,
s’era andato ad appoggiare sulla casa,
sfondandone il tetto.
La luce non tornò per una settimana: per giorni, la prima
cosa che chiedevi al collega o all’amico,
incontrandolo, era non ‘come stai?’, ma ‘hai la luce?’;
furono organizzate distribuzioni gratuite
di ghiaccio, perché i frigo non funzionavano; gli alberi
caduti vennero sezionati sul posto e man
mano sgomberati. Isabel non era stata devastante come
sarebbe poi stata Katrina, ma lasciò dietro
di sé centinaia di case scoperchiate, migliaia di alberi
sradicati, allagamenti, cinque milioni di
americani senza luce dalla North Carolina al Delaware.
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