Non sarà stata, e per fortuna, la ‘sorpresa d’ottobre,
l’evento che scompagina programmi e previsioni, e che, ormai, non farà più in
tempo ad arrivare. Ma un segno sull’Election Day, il 6 novembre, Sandy, l’uragano
declassato a depressione tropicale che è transitato su Washington e su New
York, lo lascerà sicuro, almeno a livello organizzativo. Nel Maryland e in
altri Stati della Costa Est le operazioni di ‘early voting’, quelle cioè che
consentono agli elettori di esprimere il proprio voto prima del giorno fissato,
sono state sospese. E Craig Fugate, il direttore della Fema, la protezione
civile degli Stati Uniti, ammette che la tempesta “avrà effetti anche a medio e
a lungo termine e, quindi, anche sulla settimana prossima”, quando si va alle
urne. Il che non vuol dire, come qualcuno vuole frettolosamente decretare, che
l’Election Day sarà rinviato: la legge federale lo fissa al martedì dopo il
primo lunedì del mese di novembre. Piuttosto, vuol dire che, qua e là, le
modalità di voto, ad esempio la dislocazione dei seggi, potrebbero doversi
adeguare all’impatto di Sandy.
A livello elettorale, una vittima certa dell’uragano
spintosi così a nord come raramente capita sono i sondaggi, di solito
martellanti in questa fase della campagna: la Gallup per prima e poi altri
istituti demoscopici più o meno famosi li hanno sospesi, perché la difficoltà
di raggiungere al telefono i componenti dei campioni rendeva i rilevamenti
monchi e inaffidabili. E questo, in particolare, in alcuni Stati cruciali di
usa 2012, la Virginia, la Pennsylvania e pure il New Hampshire.
Sul piano politico, difficile valutare se Sandy sarà stata,
a conti fatti, repubblicana o democratica oppure se sarà da ascrivere anch’essa
fra gli elettori indecisi fino all’ultimo momento. A favore di Obama, c’è il
fatto d’essere rimasto, da comandante in capo, sulla plancia della nave in
preda ai marosi per tutta la durata dell’emergenza, in contatto con la
protezione civile per tutta la notte della grande paura per la ‘tempesta
perfetta’ –come al solito, in questi casi, le reminescenze cinematografiche si
sprecano-. Obama s’è così meritato l’elogio del governatore repubblicano del
New Jersey Chris Christie (“apprezzo la leadership del presidente”, ha detto).
Un po’ velenoso con Romney, Christie, che già pensa alla nomination
repubblicana nel 2016 e cui, quindi, la conferma del presidente fa più gioco della
vittoria dello sfidante. E contro Romney ci può essere il fatto che non abbia
chiamato tutti i governatori interessati, ma solo quelli repubblicani, e che
abbia ordito una polemica, a tempesta in corso, contro la protezione civile.
Ma contro Obama, e quindi a favore di Romney, c’è la
constatazione che Sandy, per quanto contenuta nei suoi danni dall’azione
preventiva della Casa Bianca e delle Amministrazioni statali e municipali,
lascia, comunque, una striscia, probabilmente inevitabile, di morte e di devastazionii:
una trentina di vittime, miliardi di dollari di danni, oltre otto milioni di
americani senza luce –a New York, un black out peggiore di quello del 2003-,
tre centrali nucleari fermate, trasporti pubblici paralizzati, la borsa di New
York chiusa - non accadeva dalla settimana dell’11 Settembre 2001 -. Obama, che
aveva anticipato lunedì il rientro dalla Florida alla Casa Bianca, e aveva
cancellato un evento nel Wisconsin, prolunga di un giorno lo stop alla campagna
elettorale: non andrà nelle prossime ore nell’Ohio, stato chiave di questo
voto. Romney, invece, riparte per la Florida.
Quella che Sandy non ferma, almeno nelle case dove la tv
continua a essere accesa, è la guerra degli spot tra i due rivali: in Ohio, un
tema caldo è l’industria dell’auto. Romney torna alla carica con un clip in cui
accusa Obama di avere venduto la Chrysler agli italiani, che avrebbero poi
deciso di trasferire la produzione della jeep in Cina. In gioco c'é il consenso dei lavoratori di
Toledo, la città che ospita la fabbrica dove si produce la Jeep. Ma lo spot diventa un boomerang: le accuse si
rivelano false, visto che la casa di Detroit, sin dal primo momento, chiarisce
che si tratta di ampliare la produzione e non di trasferirne una parte ("nessun bullone uscirà dagli Stati
Uniti”). E il presidente replica con un contro-spot: chi voleva il fallimento
dell'auto ‘made in usa’ era Romney, che bocciò il piano di aiuti elaborato
dalla Casa Bianca.
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