Scritto per Il Fatto Quotidiano dello 04/10/2012
Barack Obama ne ha in tasca 237 sicuri; e gliene servono ancora 33 per restare alla Casa Bianca altri quattro anni. Mitt Romney è fermo dalla convention di Tampa a fine agosto a quota 191. E’ staccato, ma i suffragi in bilico sono ancora 110 e lo spazio per farcela c’è. 270 è il numero magico dei voti necessari per essere eletti presidente degli Stati Uniti.
“Ma di che cosa sta parlando?”, si chiederanno molti di voi: il presidente degli Stati Uniti lo eleggono, uno più, uno meno, 100 milioni di elettori americani andando alle urne il 6 novembre, l’Election Day. Vero. E falso. Perché i cittadini non eleggono il presidente, bensì i Grandi Elettori del loro Stato, ripartiti in funzione della popolazione. E sono poi i 538 Grandi Elettori - maggioranza, 270 - a eleggere il presidente: tutti quelli di uno Stato vanno al candidato che, anche per un solo voto popolare, vince in quello Stato. Ovviamente, per rendere le cose semplici, ci sono eccezioni: il Maine e il Nebraska ripartiscono i loro Grandi Elettori su base proporzionale, fortuna che sono pochi, 4 e 3 rispettivamente.
Allora quel che conta, quando all’Election Day mancano meno di cinque settimane e quattro dibattiti televisivi -il primo a Denver la scorsa notte-, sono i Grandi Elettori ancora contesi: Obama e Romney, ormai, fanno quasi solo campagna nei loro Stati.
Secondo la mappa di 270towin, un sito che tiene costantemente aggiornata la conta e che sovente ci azzecca, a settembre, gli Stati in bilico sono scesi da 11 a 9: Pennsylvania (20) e Michigan (16) non sono più beige incerto, ma blu democratico. Beige restano New Hampshire (4) nel New England; Virginia (13), North Carolina (15) e Florida (29) nel Sud; Ohio (18), Iowa (6) e Wisconsin (10) tra MidWest e Grandi Laghi; Nevada (6) e Colorado (9) sulle Montagne Rocciose.
Non tutti gli Stati in bilico hanno la stessa valenza. Vi sono quelli tradizionalmente incerti, cosiddetti ‘swing States’, che votano alternativamente democratico o repubblicano: esempi tipici, l’Ohio, lo Iowa, la Virginia, la Florida; e vi sono quelli contesi questa volta per ragioni contingenti, che possono essere l’origine di un candidato o la popolarità di certe sue idee in una certa area.
Di tutti gli ‘Stati chiave’, i due ritenuti più significativi sono Florida e Ohio: per i repubblicani, conquistare la Casa Bianca senza vincere l’Ohio è un tabù; per chiunque, arrivarci senza avere vinto in almeno uno dei due è praticamente impossibile.
Il presidente è avanti nei sondaggi su scala nazionale – solo di tre punti, però, secondo l’ultimo rilevamento Wall Street Journal / Nbc -, ma è soprattutto avanti negli Stati in bilico chiave, cioè proprio Ohio e Florida: vincere lì, gli basterebbe per garantirsi il successo finale – e, in realtà, gli bastano la Florida e il piccolo New Hampshire, dove pure è messo meglio del suo rivale -.
Perché questo sistema dei Grandi Elettori, invece del suffragio universale diretto? Negli equilibri costituzionali statunitensi, il meccanismo ha una valenza federale –i Grandi Elettori di ogni Stato corrispondono ai suoi deputati alla Camera più i due senatori, così che anche i più piccoli ne hanno almeno 3- e serve ad evitare che un presidente venga eletto con i voti solo di un’area geografica. Inoltre, il sistema è dinamico: il peso degli Stati varia in funzione degli andamenti demografici, l’Ohio ad esempio ne perde, come tutto il Nord-est in generale, la Florida ne acquista, come il Sud.
C’è però un neo: il sistema consente l’elezione di un presidente che abbia avuto meno voti popolari del suo rivale. E’ già successo tre volte, due nell’ ‘800 e la terza, recentemente, nel 2000, quando George W. Bush andò alla Casa Bianca avendo vinto la Florida per 250 voti, nonostante Al Gore avesse avuto su scala nazionale mezzo milione di suffragi in più.
giovedì 4 ottobre 2012
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