Scritto per Il Fatto Quotidiano del 23/11/2010
Asia Bibi, la pakistana cristiana condannata a morte per blasfemia, è innocente, è stata graziata, e libera; o, forse, non è (ancora) vero che sia libera. Ma le pressioni del Papa, dell’Ue, della comunità internazionale, hanno effetto. Un esito scontato dall’inizio? Forse: il Pakistan, con la condanna di Bibi, fa il gioco della sua componente integralista islamica. Ma, poi, con la marcia indietro, mostra il suo lato tollerante occidentale.
Le pena di morte e i diritti dell’uomo come strumento di politica estera, talora nobile e ‘alta’, come l’ ‘ingerenza umanitaria’ che ispiro’ nel 1993 l’intervento in Somalia, ma spesso cinica e interessata: prove di forza per mostrare i muscoli con l’impiccagione del Jordi di turno o di un dittatore deposto. Storia vecchia, che le cronache riportano in prima pagina in questi giorni con martellante ripetitività : le condanne a morte, finora non eseguite e che forse non saranno mai eseguite, di Sakiné Mohammadi Ashtiani in Iran, di Tareq Aziz in Iraq, proprio di Asia in Pakistan ne offrono versioni diverse ma simili, tutte condite di elementi di politica interna. Un minimo comune denominatore è che la giustizia, umana o divina che sia, e il rispetto dei codici non sono all’origine di quelle sentenze; e che il modo in cui sono gestite, dopo essere state emesse, è tutto politico, quasi indipendente dalla lettera del diritto.
Fra i grandi dispensatori di condanne capitali, alcuni come gli Usa, la Cina, anche l’Arabia saudita, non ne fanno mai uno strumento di politica estera. Gli Stati Uniti possono talora subire, con qualche fastidio, le pressioni internazionali perchè questo o quel condannato abbia salva la vita, ma non vi prestano mai ascolto. E Pechino e Riad gestiscono la loro giustizia senza ingerenze esterne (anche perchè poco ne trapela).
Ma casi come quelli della donna iraniana condannata a morte per concorso nell’omicidio del marito, dopo essere già stata fustigata come adultera; o dell’ex ministro degli esteri e vice-premier iracheno condannato per i crimini del regime
di Saddam Hussein; o della pakistana cristiana appaiono intrecci calcolati di considerazioni politiche. E le pressioni internazionali, utili certo ad evitare le esecuzioni, possono anche servire alla causa dei governi boia.
L’Iraq fa subire a Tareq Aziz una legge del taglione etnico-religiosa –una vendetta di sciiti sui sunniti-, ma un presidente curdo ristabilisce la rispettabilità del suo Paese. La partita dell’Iran su Sakiné è la più complessa : il caso scoppia, probabilmente, fra le mani del regime di Teheran in modo inatteso, ma viene poi gestito tenendo in bilico sia la sorte della donna che l’ansia del mondo. E quando gli Usa offrono all’Iran il destro di un caso analogo con tanto d’avvenuta esecuzione, quello di Teresa Lewis, il presidente Ahmadinejad lo sfrutta a proprio favore.
Discorsi analoghi valgono per i Nobel della Pace, e talora della letteratura, che spesso vanno a dissidenti che in patria sono criminali. Accadde ai tempi della Guerra Fredda, ad esempio con Aleksandr Solzenicyn e con Lech Walesa; ed è poi accaduto di nuovo con il Dalai Lama e quest’anno con il dissidente cinese Liu Xiaobo.
Ma il Comitato per il Nobel non fa solo scelte politiche imbarazzanti per l’Urss, quando c’era, e la Cina. O, in antitesi, scelte di deferenza verso i Grandi del Mondo, come ad esempio il Nobel per la Letteratura a Winston Churchill, chè dargli quello per la pace proprio non si poteva, o quello andato sulla fiducia al presidente Obama. E non c’era mai stato un leader Usa cosi’ bersagliato da Nobel contro come George W. Bush: mentre stava alla Casa Bianca a menare guerre ovunque gli veniva il ghiribizzo, i signori di Oslo premiavano prima Jimmy Carter, un suo predecessore ‘buonista’, e poi Al Gore, l’avversario non battuto nelle presidenziali 2000, l’alfiere delle lotte per salvare la Terra dall’uomo.
Come la pena di morte, il Nobel è un’arma di politica internazionale a doppia lama. Un solo esempio : sei Paesi hanno declinato, senza fornire motivazione, l’invito a presenziare alla consegna del premio a Liu e altri 16 non hanno risposto. I sei sono la Cina, ovviamente, la Russia, il Kazakhstan, Cuba, l’Iraq e il Marocco: tutti Paesi che non sono avamposti della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e che fanno cosi’ capire che loro il premio al dissidente non lo condividono mica tanto, anzi per nulla.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento