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venerdì 5 novembre 2010

USA: l'invito al veleno di Obama al Tea Party

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 05/11/2010

La FoxNews, la tv ‘all news’ americana che è una sirena dei conservatori e che corteggia il Tea Party, annuncia, nei titoli d’apertura, lo ‘showdown’, cioè noi diremmo lo scontro decisivo tra la Casa Bianca e i repubblicani. Non è un po’ presto, il giorno dopo le elezioni di metà mandato? In realtà, l’invito fatto da Barack Obama ai leaders della maggioranza e dell’opposizione del Congresso attualmente in carica, non quello appena eletto, per parlare di economia, di tagli alle tasse e di tutto il resto, è solo la prima d’una serie probabilmente infinita di scaramucce e di punture di spillo.

Il presidente fa sapere che l’incontro «non sarà solo l’occasione per farci una foto insieme», ma sarà di sostanza. Il senso è: « Repubblicani, mica volete che perdiamo due mesi?”, quelli che mancano all’insediamento del Congresso eletto il 2 novembre. Ma Mitch McConnell, leader dell’opposizione al Senato, parte subito all’attacco: “Obama e i democratici –dice- devono ascoltare gli elettori, fare loro un passo verso di noi”. Il disegno è chiaro: i repubblicani vogliono stare per ora fermi e passare all’azione quando avranno più carte in mano.

L’idea di Obama, almeno quella che emerge dalle prime dichiarazioni del presidente, è di lavorare di qui alle elezioni del 2012 per realizzare “l’agenda della gente”, cioè per rispondere alle attese di chi ha votato per lui due anni or sono e non lo ha più votato ora, sentendosi deluso, se non proprio tradito. Parrebbe, dunque, che Obama non avverta la tentazione di rifugiarsi nella politica estera, dove il Congresso conta meno e dove il Senato, che resta democratico, gli puo’ bastare per tirare dritto per la sua strada.

Ma lavorare con un Congresso diviso, non rischia di indebolirlo ulteriormente, scolorire il suo messaggio, costringerlo a compromessi che logorerebbero ulteriormente il suo potere e la sua popolarità ? Il rischio c’è e molti commentatori, specie nel campo democratico, lo evidenziano.

Ma giocando a carte scoperte il presidente puo’ anche vedere il bluff dei repubblicani e, soprattutto, della loro componente più imprevedibile e meno controllabile, gli eletti del Tea Party: Obama li chiama a collaborare per il rilancio dell’economia; se quelli, che già sono il partito dei responsabili della crisi, fanno muro e si limitano a mettergli i bastoni fra le ruote, gli americani, fra due anni, potrebbero a loro volta castigarli alle urne ; e se, invece, stanno al gioco e accettano di negoziare compromessi, o se, indipendentemente da tutto, l’economia, che qualche volta è « stupida », va meglio, sarà comunque l’Amministrazione in carica a incassare il dividendo della ripresa.

Muro contro muro?, o il gioco sottile del negoziato e del compromesso? Il dibattito fra le due line è vivace. Non è detto che Obama, il candidato che fece sperare l’America, ma anche un presidente prammatico, tranci per l’una o per l’altra: sui temi di fondo, quelli che qualificano la sua agenda, potrebbe restare fermo; sugli altri, potrebbe cercare la trattativa.

Su un punto, (quasi) tutti i commentatori concordano. L’asso nella manica di Obama, verso le presidenziali, è l’assenza d’un jolly fra le carte dei repubblicani. Sarah Palin e Newt Gingrich, due leader che si sono fatti paladini del Tea Party, non sono in grado di conquistare la maggioranza degli americani ; e fra gli eletti del nuovo movimento non sembra esserci una personalità cosi’ forte da acquisire, nei 18 mesi che mancano alle primarie decisive per la ‘nomination’ 2012, la visibilità nazionale necessaria.

Inoltre, l’emergere di una candidatura repubblicana ‘estremista’, come lo fu, quasi mezzo secolo fa, quella di Barry Goldwater nel 1964, potrebbe anche favorire l’emergere di una terza candidatura (il sindaco di New York, Michael Bloomberg, eletto come repubblicano, ma con vedute democratiche, sta già scaldando i motori). Ora, un candidato della terza via non ha mai vinto negli Stati Uniti, e probabilmente non lo farà neppure nel 2012, ma è riuscito a fare perdere il partito cui erode voti: lo fecero Ross Perot nel 1992 –vinse Bill Clinton, perse Bush padre- e Ralph Nader nel 2000 –vinse Bush junior, perse per una manciata di voti in Florida Gore-.

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