P R O S S I M A M E N T E

Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore - Buone Feste - Sereno Natale - Un 2017 Migliore

domenica 7 novembre 2010

UE:USA: il fattore transatlantico resta essenziale

Scritto per Formiche, rivista mensile, numero 53

“Il fattore transatlantico”, cioè il rapporto con l’America, “resta essenziale per l’Unione europea”, che deve riuscire a “mettere in campo posizioni comuni” per confrontarsi con i propri partner strategici, a cominciare dagli Usa e dalla Cina, e con la crisi economica globale, che comporta “scelte come la riforma della vigilanza finanziaria e nuove regole per i mercati mondiali”. A dirlo, ai capi di Stato e di governo dei 27 Paesi dell’Ue riuniti a Bruxelles, è stato il presidente stabile
del Consiglio europeo Herman van Rompuy. E la convinzione dell’ex premier belga ha trovato conferma, nelle ultime settimane, nel confronto con Pechino sulla fluttuazione dello yuan: un’Europa davvero unita su questo punto e l’America la chiedono all’unisono, come hanno fatto, ad esempio, alle riunioni annuali di Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale.

Dopo le incomprensioni organizzative e diplomatiche, che avevano portato alla cancellazione di un Vertice Ue-Usa previsto nella prima metà dell’anno, sotto la presidenza di turno spagnola del Consiglio dei ministri dell’Unione, il prossimo incontro al vertice con il presidente statunitense Barack Obama, in Portogallo, a margine del Vertice della Nato, “è una buona opportunità –parole ancora di Van Rompuy- per dare un nuovo impulso alle relazioni con gli Stati Uniti”. Per acquisire credibilità agli occhi dell’interlocutore americano, l’Europa unita non solo deve avere un ‘numero di telefono’, come chiedeva negli Anni Settanta il segretario di Stato Usa Henry Kissinger, ma deve anche avere una posizione comune sui grandi temi dell’attualità internazionale. “Essere uniti fa la differenza”, sostiene Van Rompuy, citando ad esempio il caso della posizione comune europea sulle sanzioni all’Iran e quello della risoluzione sul Kosovo (ma cinque dei 27 non riconoscono l’indipendenza dello Stato balcanico).

Il presidente Obama che i leader europei si apprestano a incontrare è a metà del proprio mandato: reduce dalle elezioni di midterm, Obama ha perso l’aura di sogno che ne aveva accompagnato gli esordi alla Casa Bianca. Ma se i suoi oppositori del Tea Party parlano di delusione e disillusione, come fa Cesare De Carlo nel suo libro ‘Un tè freddo per Obama’, agli europei il ‘presidente nero’ continua a piacere (e molto), più di quanto non convincano le sue decisioni di politica estera tema per tema, specie in Afghanistan e sull’Iran.Il contrario di quanto fanno gli americani, che gli danno più credito sui singoli problemi che sull’insieme della politica estera, dove, anzi, la maggioranza dei consensi è risicata (52%).

Sono alcune delle indicazioni contenute nel rapporto Transatlantic Trends 2010, progetto congiunto del German Marshall Fund of the United States e della Compagnia di San Paolo, presentato in Italia a cura dello IAI, l’Istituto Affari Internazionali. Arrivato alla sua nona edizione, il rapporto sonda l’opinione pubblica degli Stati Uniti e di 11 Paesi dell’Unione europea, fra cui l’Italia, oltre che della Turchia.

Obama continua godere in Europa d’un sostegno formidabile: quattro europei su cinque, il 78%, ne approvano la politica internazionale, appena un po’ di meno dell’anno scorso, quando erano l’83%. Eppure il presidente non ha davvero fatto molto per compiacere la sua constituency europea: qui, s’è visto relativamente poco; ha dedicato scarso spazio nei suoi discorsi e scarsissima intensità alle relazioni transatlantiche; ha praticamente archiviato la ‘relazione speciale’ con la Gran Bretagna; ha costantemente guardato più a Pechino che a Bruxelles –ma è pur vero che i guai gli vengono di là, non di qua-.

Eppure, se gli europei avessero avuto voce in capitolo nella consultazione di midterm, Obama, che continua a pensare di avere “il miglior posto di lavoro al mondo”, anche se non lo diverte più usare il blackberry per i troppo vincoli di sicurezza impostigli, sarebbe statp in una botte di ferro, insieme ai suoi democratici. Intendiamoci!, anche in Europa ci sono sacche di diffidenza, verso l’inquilino della Casa Bianca: la Polonia, che all’inizio del XXI Secolo era il più americano degli Stati europei, è oggi fredda; e la Turchia, dove il 50% dei consensi nel 2009 s’è ridotto quasi della metà al 28%, è addirittura ostile. Il forte dato turco, però, può essere in parte spiegato con il timing del sondaggio: la raccolta delle opinioni è avvenuta nei giorni del cruento raid israeliano contro la flottiglia turca degli attivisti ‘pro Gaza’ –e le reazioni di Washington non furono adeguate alle attese di Istanbul-.

E, nonostante un sostegno d’insieme plebiscitario, una maggioranza di europei non condivide, capitolo per capitolo, scelte cruciali di politica estera del presidente statunitense, come quelle sull’Afghanistan (49% di sì) e sull’Iran (49% di sì). Gli americani fanno esattamente il contrario: danno al loro presidente, sui singoli temi, voti non inferiori a quello complessivo (il 52% approva la linea sull’Iran, il 54% quella sull’Afghanistan) o addirittura nettamente superiori: il 56% dice sì alla lotta contro i cambiamenti climatici, nonostante il fiasco ambientale della marea nera del Golfo del Messico, e il 61% è soddisfatto delle relazioni Usa-Russia dopo il reset dei rapporti deterioratisi nell’ultima parte della presidenza Bush.

Che cosa può spiegare un divario così netto tra americani ed europei nella valutazione dell’operato di Obama? Gli uni e gli altri condividevano, due anni or sono, speranze e aspettative. Gli americani, che di pazienza ne hanno meno degli europei, più abituati a essere delusi dai propri leader, si sono ‘disinamorati’ più rapidamente. Inoltre, il giudizio degli europei è essenzialmente condizionato dalla politica estera, mentre quello degli americani risente delle difficoltà incontrate dal presidente sul fronte interno: le incertezze e le contraddizioni, almeno iniziali, di Obama alle prese con la crisi economica e finanziaria e, questa primavera, con la marea nera; mentre i successi di politica interna registrati dall’Amministrazione, anche importanti come le riforme della sanità e della finanza, non hanno ancora inciso, né lo faranno nel breve termine, sulle condizioni di vita dei cittadini.

In politica internazionale, vi sono promesse che Obama deve ancora mantenere (e che gli Usa non possono realizzare da soli): una su tutte, l’avvicinamento tra arabi e israeliani, che va verificato nell’anno di negoziati diretti apertosi all’inizio di settembre. Però, anche quando il presidente ha rispettato l’impegno assunto con i suoi elettori, ad esempio completando entro agosto il ritiro delle unità da combattimento dall’Iraq, non ne ha sempre ricavato un credito politico: agli americani, l’uscita dall’Iraq, così com’è avvenuta, non è suonata ‘’missione compiuta’’, ma ‘’ritirata’’. E, inoltre, gli americani cercano la vittoria in Afghanistan, dove gli europei sono molto più scettici sull’opzione militare, e puntano sulle sanzioni verso l’Iran, mentre gli europei hanno la tendenza a considerare economia, finanza e commercio una carota nelle relazioni fra Stati più che un bastone.

Emergono, poi, dal Transatlantic Trends, atteggiamenti in netto contrasto verso il terzo protagonista del potenziale G3 della governance mondiale (Usa, Ue e Cina). Oltre nove americani su 10 sono convinti che la Cina è destinata ad avere e a esercitare una grande influenza a livello mondiale, mentre appena il 68% degli europei lo è. Inoltre, oltre la metà degli americani ritiene che i valori che uniscono Usa e Cina permettano una cooperazione sulle questioni internazionali, mentre quasi i due terzi degli europei la pensano all’opposto. Pragmatismo contro rimasugli d’ideologismo?, opportunismo contro rigore analitico?, abbaglio statistico o differenze radicate? Difficile giudicare, tanto più che europei ed americani sono allineati nel non giudicare positivo il ruolo fin qui giocato dalla Cina nei conflitti globali, nella lotta alla povertà e contro il riscaldamento globale.

Infine, di qua e di là dell’Atlantico, c’è una domanda incrociata di reciproca leadership. Il 55% degli europei auspica una forte leadership americana nel Mondo, capace di influenzare e orientare l’andamento planetario; e il 72% degli americani si dice favorevole a una forte leadership Ue (vogliono, cioè, che gli europei siano una presenza solida e affidabile a fianco degli Stati Uniti, condividendone gli sforzi e contribuendovi in modo adeguato).

Nessun commento:

Posta un commento