Scritto per La Presse il 17/07/2015
“Non è
vero che l’Italia non conta, non è vero che non siamo stati ascoltati”, nel negoziato
maratona che ha condotto all’accordo sulla Grecia fra i leader dell’Eurogruppo,
in quella drammatica notte ‘che poteva finire l’Unione’ tra domenica e lunedì.
Lo testimonia Sandro Gozi, sotto-segretario agli Affari europei, uno che c’era,
tutte quelle 18 ore accanto al premier Matteo Renzi nella grande sala del
Consiglio europeo.
Gozi ricostruisce quei lunghi
momenti tesissimi: “Tredici su 19 erano pronti a fare uscire la Grecia
dell’euro, due stavano a guardare, tre erano contro, Cipro, la Francia e
l’Italia”. E, alla fine, i 13 hanno seguito i tre: “Non ci interessa starlo a
raccontare, ma loro, i greci, lo sanno e gli altri pure”, dice il
sotto-segretario, che si lamenta della ‘narrazione’ di quella trattativa uscita
sui media italiani.
L’occasione è un incontro con
‘europeisti doc’ organizzato da Università per l’Europa, una creatura del
professor Francesco Gui, presso l’Aiccre, sezione italiana del Consiglio di
Comuni e Regioni d’Europa, nella sede su Fontana di Trevi, lo stesso palazzo
dove abitava il presidente Pertini. Confronto ristretto, con Carla Rey,
segretaria generale dell’Aiccre, in regia.
Per Gozi, “Ci sono i presupposti
perché la crisi greca diventi uno spartiacque europeo”: ce ne sono stati altri
nella storia dell’Unione; e spesso ne sono venute spinte ad approfondire
l’integrazione. Perché “l’Europa
deve diventare un movimento più ampio, se no soccombe”.
L’Italia,
ricorda il sotto-segretario, ha proposte su come approfondire la governance
dell’Eurozona, ben più ambiziose di quelle contenute nel documento presentato a
giugno dai cinque presidenti delle Istituzioni comuni. L’idea è di utilizzare
lo strumento della cooperazione rafforzata e di rivedere parti dei Trattati,
facendo, di qui al 2017, uno slalom tra le scadenze istituzionali ed
elettorali, come il referendum in Gran Bretagna, le presidenziali francesi, il
60° anniversario dei Trattati di Roma.
L’urgenza
è evitare che “il tema della democrazia europea sia preso in ostaggio dagli euro-scettici”
e riuscire ad “uscire dalla stretta micidiale tra burocrazia e populismo”: “L’anti-politica
s’è trasferita quasi per sillogismo all’Europa, in una sfida di cui Ue è in parte
complice e in parte vittima”.
Complice
perché sulla Grecia l’Unione ha fatto “grossi errori”, perché il decennio a
guida Barroso “non è stato fra i più felici dell’integrazione”. Vittima, perché
“in assenza dell’Europa di cui c’è bisogno prosperano i nazionalismi e i
populismi, che sono emanazione sia dell’Europa che non c’è che dell’Europa che
c’è”.
“Non è
nell’interesse dell’Italia che l’Unione perda dei pezzi”, assicura Gozi:
“Abbiamo in comune la moneta, il mercato, la libera circolazione, ma non abbiamo
un metodo democratico per gestire insieme questi beni. E le legittimità
nazionali finiscono l’una contro l’altra: 11 milioni di greci non possono
decidere per 350 milioni di europei; e i voti dei Parlamenti tedesco e
finlandese non sono meno democrazia del referendum in Grecia. Ci vuole un metodo
di governo dei beni in comune: è un punto fondamentale”, che non può essere
interamente affrontato e risolto né in via comunitaria né in via inter-governativa.
Problemi
di efficienza, di trasparenza, di governance democratica. Ad aggravare la
situazione, testi spesso incomprensibili, “massima espressione dell’approccio
tecnocratico alla prima fase della crisi” scoppiata nel 2008. Ma Gozi vede una
speranza negli “elementi migliorativi presenti nel documento finale” della
maratona negoziale del 12 e 13 luglio: anche quel brutto accordo può contenere
germi d’un’Europa migliore.
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