Scritto per Il Fatto Quotidiano del 26/01/2011
“La condanna da parte dell’Italia, dell’Ue, della comunità internazionale del terrorismo di Stato” del premier Sali Berisha “è importante non per quello che è successo, ma per quello che può succedere”. A 48 ore dalla manifestazione annunciata per venerdì prossimo, “che sarà nel segno della non violenza”, Edi Rama, il capo dell’opposizione albanese, osserva, con insofferenza, in tv il premier sostenere che “il colpo di Stato” dei socialisti “non è ancora finito” (“Ma quale colpo
di Stato? Eravamo in piazza con ombrelli e cartelli”); riunire a rapporto i generali; ricevere e baciare i capi della Guardia nazionale che si rifiuta di fare arrestare nonostante l’ordine della magistratura; e preparare la contro-manifestazione di sabato (“Fame, forche e feste”, preconizza Rama, citando Gide).
Nel suo ufficio nella sede del Partito socialista, non lontano dal luogo della strage di venerdì, lo stradone davanti alla sede del governo dove tre manifestanti sono stati ammazzati dalle pallottole della Guardia nazionale, Rama ammette che il suo appello all’Italia, all’Ue, perché condannino il terrorismo di Stato di Berisha (che non è violenza generica”, chiarisce), ha avuto scarsa eco: una dichiarazione della Farnesina, sollecitata dalle agenzie di stampa; un messaggio di solidarietà dal Pd (senza la firma d’un leader). Fuori dal suo studio, c’è Marco Pannella: “Sono venuto qui di corsa”, dice il vecchio leader radicale giunto a incoraggiare una ‘non violenza’ non imbelle.
“Capisco un atteggiamento di prudenza a livello internazionale –afferma Rama-: in questa fase, il riserbo è comprensibile. Ma, poi, ci vorrà chiarezza. Ed è naturale che ci aspettiamo una condanna di quanto avvenuto: quegli agenti che hanno sparato sono stati addestrati ed equipaggiati con soldi e istruttori italiani ed europei. Di recente, abbiamo visto proteste pure peggiori di quella albanese a Roma, a Londra, ad Atene, ma non ci sono stati morti, la polizia non ha sparato”.
Artista e figlio di artista, Rama, 47 anni, sindaco di Tirana, è di una generazione successiva a quella dei Berisha e dei Fatos Nano, che hanno egemonizzato la vita politica albanese nei vent’anni successivi alla caduta del regime comunista. Con Berisha, non parla direttamente da mesi, fatte salve le occasioni d’incontro collettive innescate da delegazioni internazionali: con il premier, i motivi d’astio, anche personali, non mancano e datano di oltre dieci anni or sono.
Italiano forbito, molto alto, barba curata, vestito elegante, gilet, scarpe nere d’un lucido brillante, Rama ripercorre le vicende più recenti dell’Albania, lo scandalo di corruzione che ha minato la coesione della compagine governativa e ha suscitato, il 20 gennaio, la protesta divenuta tragedia: “Quello di Berisha non è un governo, ma un regime, che ha rubato le elezioni, negato un’inchiesta sui risultati, bruciato le schede e secretato i verbali degli scrutini”. E poi rievoca la manifestazione di venerdì scorso, la “provocazione” –dice- delle forze dell’ordine” scattata quando lui era a poche centinaia di metri dal fronte della protesta e stava raggiungendolo, l’immagine “da regime canaglia” degli agenti della Guardia Nazionale che sparano.
“Non sono né deluso né scoraggiato dall’atteggiamento internazionale: so che l’Albania non è l’ombelico del mondo”. E un gesto di sostegno gli viene dagli Stati Uniti: l’ambasciatore di Washington dichiara pieno appoggio alla magistratura albanese, con un gesto che sconfessa l’atteggiamento di Berisha. E l’Italia? “E’ naturale, per noi, guardare all’Italia, che è stata la nostra America per tanti anni, quando conoscere i versi di una canzone di Celentano era un atto di dissidenza enorme e quando i notiziari radio e tv della Rai erano segnali di libertà. E l’Italia è poi sempre stata vicina all’Albania, quale che fosse il governo”. Rama vuole che lo resti anche nel ‘dopo Berisha’.
mercoledì 26 gennaio 2011
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