Scritto per Il Fatto Quotidiano del 01/09/2010
Non ha detto “Mission accomplished”, missione compiuta, come recitava, il 1.o maggio 2003, con incongruo trionfalismo lo striscione steso sulla portaerei Lincoln alle spalle del presidente George W. Bush, venuto a salutare il ritorno in patria dei primi reduci dell’ ‘operazione Iraq’: neppure 45 giorni dopo l’invasione, il regime di Saddam Hussein era rovesciato e il Paese occupato. Eppure, la guerra doveva ancora cominciare: altro che “mission accomplished”, c’erano davanti sette anni e mezzo di conflitto cruento, 4.500 militari americani caduti, centinaia di migliaia di vittime irachene. Nulla, o quasi, era ancora accaduto.
Ieri sera, il successore di Bush, il presidente Barack Obama, ha parlato d’Iraq all’America in tv dallo Studio Ovale, quello da cui Bush annunciò l’inizio delle ostilità il 19 marzo 2003, quando già Baghdad era sotto attacco. Oggi, sei americani su dieci giudicano il conflitto sbagliato e solo uno su quattro pensa che abbia reso l’Unione più sicura; ma allora, in un’America ancora traumatizzata dagli attentati dell’11 Settembre 2001, l’appoggio all’invasione fu plebiscitario e bipartisan.
In questi giorni, Obama è immerso nei lasciti di Bush peggiori: prima, New Orleans, cinque anni dopo il nefasto impatto dell’uragano Katrina: ieri, l’Iraq; oggi, la ricucitura dei negoziati di pace mediorientali, presenti alla Casa Bianca i protagonisti della trattativa. Il presidente nero si muove sui grandi temi della pace e dell’ambiente, che sono i suoi, ma pare quasi giocare fuori casa: l’economia stenta e i sondaggi sono negativi.
Paradossalmente, i repubblicani all’opposizione vivono il ritiro dall’Iraq come un trionfo: attribuiscono il ‘successo’ alla strategia della loro Amministrazione, sono convinti al 50% che Obama sia un musulmano che vuole imporre l’Islam all’America e stanno ben dieci punti avanti ai democratici nei sondaggi per le elezioni politiche di midterm il 2 novembre. E’ il margine più ampio mai registrato dalla Gallup da 70 anni in qua, da quando cioè fa il rilevamento.
Senza trionfalismi, perché, dice il capo del Pentagono Robert Gates, non ce n’è motivo, Obama annuncia di avere mantenuto l’impegno preso – ritirare le truppe da combattimento entro agosto-. Ma laggiù restano 50 mila istruttori militari americani per addestrare le forze di sicurezza irachene e la situazione è instabile.
La rete terroristica di Osama bin Laden al Qaida, che fino al 2003 non era presente in Iraq, firma raffiche di attentati e sente soffiare “il vento della vittoria”. Se Washington saluta la Nuova Alba, cioè la nuova missione irachena, al Qaida ha pronta la sua Nuova Alba: nuove modalità d'attacco per una campagna di terrore rafforzata dopo il ritiro delle forze combattenti Usa.
Il premier uscente Nuri al Maliki, sciita, preconizza “nuovi attacchi” di al Qaida, denunciandone l’alleanza con quel che resta dell’ex regime baathista sunnita e imprecisati “aiuti esterni”. Ma promette vittoria e, come Obama, dichiara fiducia nelle capacità delle forze di sicurezza irachene (né potrebbero fare altrimenti). Però il vescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, teme “una guerra civile” dopo il ritiro, “una decisione irresponsabile”.
E la Croce Rossa calcola che "decine di migliaia di persone" risultano ancora scomparse in Iraq, dopo la guerra con l'Iran (1980-1988), la guerra del Golfo innescata dall'invasione del Kuwait (1990-1991) e il conflitto seguito all'invasione americana del 2003. Le vittime di questa stagione cruenta sono almeno un milione e mezzo.
La politica irachena, inquinata dalla corruzione e traversata da divisioni religiose ed etniche, ristagna: oltre cinque mesi dopo le elezioni di marzo, le trattative per la formazione del governo sono in stallo. Obama chiede “un esecutivo il prima possibile”, ma al Maliki fa il pavone: “Ora –dice- siamo sovrani e indipendenti”, lui che senza gli americani non sarebbe mai stato a quel posto.
Il generale Ray Odierno, comandante delle truppe Usa in Iraq, prevede che ci vorranno due mesi prima che ci sia un governo e non esclude un ritorno alle urne. "Bisogna evitare –dice al NYT- che gli iracheni perdano fiducia nella democrazia: questo è il rischio dello stallo". La parole di Odierno sono una sorta di ‘testamento spirituale’: oggi, il generale lascerà l’Iraq, dopo quattro anni, passando il comando al generale Lloyd Austin III.
A Washington, il presidente Obama è quasi costretto a recitare un copione di Bush: rende onore ai soldati, visita i feriti, manda il suo vice Joe Biden in visita a sorpresa a Baghdad, parla al telefono con il suo predecessore, pur sconfessandone l’operato. Da quando Obama è alla Casa Bianca, il contingente iracheno è sceso da circa 140 mila uomini a 50 mila, ma quello afgano è parallelamente aumentato in modo analogo. E laggiù la guerra va avanti, va male e –avverte il presidente- andrà peggio.
Obama dice che il conflitto in Iraq “sta per finire” e che il nuovo governo iracheno potrà “tracciare la rotta” del futuro. La missione Nuova Alba, destinata a concludersi entro il 2011, consisterà nell’addestrare le truppe irachene, effettuare missioni anti-terrorismo e proteggere gli interessi americani civili e militari. E’ un discorso che non ha il tono della vittoria, ma il marchio dell’errore e l’alone della sconfitta.
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