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domenica 12 settembre 2010

Turchia: referendum su una fetta dell'eredità di Ataturk

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/09/2010

La posta in palio: una fetta dell’eredità di Ataturk, militare, politico, il fondatore della Turchia moderna e laica, di cui fu il primo presidente dal 1923 alla morte nel ’38. L’esito: estremamente incerto, con sondaggi che spaccano sì e no quasi al 50%. Circa 50 milioni di turchi vanno alle urne oggi per pronunciarsi con un referendum su una riforma della Costituzione che, se approvata, consoliderebbe il potere dell’attuale governo islamico-conservatore nei confronti dell’opposizione laica e nazionalista e cancellerebbe alcuni bastioni del laicismo istituzionale ‘ataturkiano’.

La consultazione è, inoltre, un test di popolarità per il premier Recep Tayyip Erdogan, il cui governo è al potere dal 2002 –una continuità eccezionale per la Turchia-. L’esecutivo progetta riforme liberali, che Ue e Fmi sollecitano, ma è anche portatore di germi d’integralismo islamico.

La riforma riguarda 26 articoli dell’attuale Costituzione, scritta nel 1982, sotto l’egida degli autori del colpo di Stato del 1980. Uno dei punti meno controversi è proprio la levata dell’impunità per i militari putschisti. Il voto, non a caso, cade trent’anni esatti dopo quegli eventi. Erdogan e il suo partito, l’Akp, dicono di volerla fare finita “con la tutela dei militari” sulla vita politica e hanno recentemente represso con teatrale durezza una presunta nuova trama putschista.

La riforma è giudicata dall’Ue un passo nella buona direzione, sulla via delle riforme istituzionali che avvicinerebbero l’adesione della Turchia all’Unione. Ma questo è un momento di stanchezza dell’opinione pubblica turca, come di politici e imprenditori, rispetto all’ingresso nell’Ue: sentimenti innescati dalla lentezza dei negoziati e dalla freddezza, se non ostilità, di molti dei 27, fra cui Francia e Germania (l’Italia di Berlusconi, invece, sta con Erdogan). Il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu ha denunciato, proprio ieri, che le trattative, avviate nel 2005 e giunte a un terzo del cammino, vanno avanti troppo piano.

Se vincono i sì, le prerogative della giustizia militare saranno limitate e le due istanze giudiziarie che sono bastioni della laicità dello Stato e coriacei avversari dell’attuale governo saranno ‘addomesticate’: la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura, che nomina i giudici e i procuratori. E, in questo senso, la vicenda turca ha assonanze con quella italiana. Inoltre, la dissoluzione dei partiti politici sarebbe soggetta all’autorità del Parlamento (nel 2008, l’Akp aveva rischiato di essere sciolto per attività contrarie alla laicità dello Stato e della società).

L’opposizione laica e nazionalista dice che la riforma compromette l’indipendenza della giustizia e la separazione dei poteri, in un Paese in cui i tribunali hanno contribuito a bloccare leggi islamiche come la soppressione della proibizione del velo nelle Università. Un successo dei no renderebbe più incerte le elezioni politiche dell’anno prossimo, dopo che l’Akp, che alle legislative 2007 s’avvicinò al 50% dei suffragi, era già sceso a meno di un terzo nelle amministrative 2009.

L’Akp presenta la riforma come un’occasione per allargare gli spazi di democrazia e avvicinarsi all’Ue. La campagna, segnata da accuse di attacchi alla libertà di stampa e di intercettazioni illecite –anche qui, un parallelo italiano-, ha messo sotto tiro oure la politica estera di Ankara: da bastione dell’Alleanza atlantica e migliore interlocutore musulmano di Israele, la Turchia di Erdogan è, ora, un cuneo islamico negli schieramenti occidentali, mentre i rapporti con Israele si sono raffreddati e quelli con l’Iran intensificati. E la guerra curda continua a fare vittime.

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