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martedì 7 settembre 2010

Salvate Sakineh: vivano i condannati, ma senza liberatutti

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 07/09/2010

“Salvate Sakineh”, ma mica solo lei. Salvate, anzi salviamo, ogni altro uomo (o donna) rinchiuso in un braccio della morte e condannato alla pena capitale; innocente o colpevole; ovunque si trovi, in Iran o in Arabia saudita, negli Stati Uniti o in Giappone o in Cina; e quale che sia il reato attribuitogli. “Salvate Sakineh” e tutte le vite affidate ai boia di questa Terra perché la mobilitazione contro la pena di morte è un impegno di civiltà senza confini e senza distinzione di sistema politico, di religione, di modalità di esecuzione. “Salvate Sakineh” come, in passato, la mobilitazione è scattata –non sempre con successo, anzi- per Safiya e poi Amina in Nigeria o per Paula Cooper –uccisa per un delitto compiuto quand’era ancora minorenne- o per il messicano José Medellin nel forcaiolo Texas.

Il più delle volte, purtroppo, la coscienza sonnecchia: la mobilitazione non scatta sempre, quando un boia nel Mondo ‘giustizia’ un proprio simile. Ci sono casi che colpiscono di più l’opinione pubblica internazionale, o di qualche Paese specifico: le donne, i minorenni, quando la presunzione d’innocenza è più forte. E ci sono modalità d’esecuzione che c’indignano più di altre: la lapidazione ci disturba più dell’iniezione letale (non solo in Iran, ma pure in Afghanistan dove ne avvenivano anche prima che i talebani prendessero il potere, in Arabia e negli Emirato o in Nigeria).Spesso, delle lapidazioni ci giunge notizia ex post e talora non ci giunge notizia per nulla: il che accresce repulsione e frustrazione. Nell’Islam, si discute se tale punizione sia ammessa dal Corano. In Iran, è legge: l’articolo 83 del Codice penale prevede 99 frustate per chi fa sesso fuori dal matrimonio e la lapidazione per gli adulteri.

Inoltre, il diritto/dovere di ingerenza morale è avvertito più forte quanto meno il percorso che conduce alla condanna è trasparente, quando ci sono sospetti di persecuzione politica, quanto maggiore è la distanza che ci separa dal regime o dall’ambiente culturale o religioso che la ispira.

Il caso di Sakineh è una somma di tutto quanto più ci induce alla mobilitazione: è una donna, deve subire la lapidazione, è stata condannata in Iran con un procedimento giudiziario di cui s’è saputo ben poco e dove c’è un regime politico e un clima religioso intolleranti e integralisti. Dunque, con forza, “Salvate Sakineh”.

Però, la contestazione della pena di morte non deve tramutarsi, automaticamente, nell’esaltazione del condannato a morte. Ricordiamo Joseph D’Dell, condannato a morte per omicidio in Virginia
e sottoposto a iniezione letale nel 1997, mentre in Italia sul suo caso, che lasciava indifferente l’America, si sviluppava un’impressionante mobilitazione, che sfociava nella decisione della città di Palermo di concedere una sorta di cittadinanza postuma al ‘giustiziato’ accogliendone la salma. O’Dell morì dicendosi innocente, ma la giustizia americana, che non è infallibile, non ha mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza.

Nel caso di Sakineh, la mancanza di notizie certe, la segregazione in cui la donna è tenuta, anche rispetto alla sua famiglia e ai suoi avvocati, alimenta l’ansia e lo sdegno, ma può anche indurre a prendere per buone tutte le voci: una seconda fustigazione, denunciata dal figlio; o l’esecuzione a fine Ramadan, venerdì sera, come dice ora Bernard-Henry Lévy. L’adulterio è un reato in Iran e non lo è da noi –ma questo non può essere un criterio di valutazione, almeno fin quando l’umanità non si sarà data una legge universale valida su tutto il Pianeta-. Ma, oltre che di adulterio, Sakineh è stata accusata e condannata a morte per avere partecipato all’uccisione del marito e ha pure ammesso la sua colpa in una confessione televisiva –si presume estorta, magari con la tortura, ma per certo non si sa-.

Comunque sia, la pena di morte resta eccessiva, smisurata, disumana. Ma, se è colpevole del delitto per cui la giustizia iraniana l’ha condannata, è giusto che Sakineh sconti una pena adeguata. Il suo caso, come il caso di tutti gli uomini e le donne nelle sue condizioni, non può lasciare indifferenti, ma non può neppure condurre ad atteggiamenti populisti e radicali, tipo ‘Libera subito’, o anche il riconoscimento aprioristico dello statuto di rifugiata politica in un altro Paese.

Nel Mondo, sono migliaia i condannati in attesa di esecuzione. Molti fra di essi, probabilmente la stragrande maggioranza, sono delinquenti della peggiore risma e assassini: ucciderli non è giusto, liberarli neppure.

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