Scritto per Il Fatto Quotidiano del 02/09/2010
La nuova speranza di pace in Medio Oriente s'accende alla Casa Bianca, in uno Studio Ovale rinfrescato e rinnovato. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen sono i primi leader internazionali a essere ricevuti dal presidente statunitense Barack Obama nel suo 'nuovo' ufficio. A calcare con loro il tappeto istoriato con massime di presidenti del passato, da Lincoln a Kennedy, passando per i Roosevelt, e di Martin Luther King, ci sono il presidente egiziano Hosni Mubarak e il re di Giordania Abdallah II.
I negoziati diretti tra israeliani e palestinesi ripartono a Washington, dopo una pausa di oltre un anno e mezzo: ieri, bilaterali e preliminari; oggi, la ripresa delle trattative vera e propria.
La strage martedì di quattro coloni israeliani ad opera di palestinesi offusca l'ottimismo di prammatica dell'occasione. Ma tutti i leader presenti a Washington sanno bene che i nemici della pace saranno sempre in agguato, fin quando andranno avanti i negoziati.
Per il presidente Obama, sono giorni frenetici: chiude la missione di guerra in Iraq senza trionfalismi; avverte che quella in Afghanistan potrebbe diventare ancora più dura; prova a definire un cammino di pace in Medio Oriente; e riconosce che il compito più urgente e' rilanciare l'economia.
L'idea e' che la trattativa tra Israele e gli arabi vada in porto in un anno. Gli Usa, dice George Mitchell, l'esperto mediatore che ha servito vari presidenti, giudica l'obiettivo "realistico" e ritiene che ci sia "una finestra di lancio" per la soluzione 'a due Stati', Israele e la Palestina, che vivano in pace l'uno accanto all'altro, ciascuno sicuro dentro i propri confini. Washington intende avere "una presenza attiva e sostenuta" nel processo, cui Obama da' "grande priorita'".
L'ambizione e' quella di coinvolgere nei negoziati Siria e Libano, che, contrariamente all'Egitto e alla GiordaniaN non hanno ancora fatto la pace con Israele. Quanto ad Hamas, nessuno l'aspetta al tavolo della trattativa, ma gli americani la accetterebbero, "nel rispetto dei principi di democrazia e non violenza".
La strage di Hebron ha raffreddato il clima, gia' tiepido, ma non ha fatto saltare il programma. Martedì sera, quattro israeliani, due uomini e due donne, una incinta, sono stati bloccati e crivellati di colpe da un commando del braccio armato di Hamas, le brigate Ezzedin al-Qassam, che, rivendicando l'attentato, il più grave da due anni, hanno preannunciato altri attacchi.
Abu Mazen ha subito condannato l'azione. Netanyahu ha avvertito che i confini di Israele "non saranno decisi con il terrore". Shimon Peres, una storica 'colomba', ha detto che "il terrorismo non vincera'", invitando "a trattare con chi vuole la pace". Per la Casa Bianca, "e' cruciale andare avanti".
Resta da vedere se Obama ha in mano un asso, o meglio, un jolly da calare al momento opportuno, al di la' della volonta' politica spesa per fare ripartire i negoziati diretti, nonostante lo scetticismo generale, la reciproca sfiducia fra i due attori principali (Netanyahu e Abu Mazen) e gli ostacoli e le provocazioni che di continuo s'interpongono e sovrastano i gesti (rari) di buona volonta'.
Alla cerimonia collegiale, oggi, ci sara' pure l'inviato del Quartetto (onu, Usa, Russia e Ue), Tony Blair, le cui ultime dichiarazioni ("Giusto attaccare l'Iraq") non sono piaciute ne' a Washington ne' fra gli arabi.
I temi in agenda sono quelli noti, spinosi, aggrovigliati, d'un conflitto che attraversa mezzo secolo. C'e' la questione dei confini della Palestina, che l'Anp di Abu Mazen vuole riportare alle linee del 1967, mentre Israele non ci pensa proprio ad abbandonare tutti i territori occupati; e ci sono i problemi delle colonie ebraiche, la cui moratoria sta per scadere, dello statuto di Gerusalemme Est (a maggioranza araba), del 'diritto al ritorno' dei palestinesi che dovettero abbandonare case, beni, terreni.
Senza reciproche concessioni, la trattativa non avanzera. E, oggi, questo e' un handicap, nessuno dei protagonisti e' cosi' forte da poterne fare: non Netanyahu, premier ostaggio della destra religiosa; non Abu Mazen, presidente senza l'appoggio del suo popolo; e neppure Obama, giu' nei sondaggi e accusato di cercare di mascherare gli insuccessi interni con un po' di maquillage internazionale.
giovedì 2 settembre 2010
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