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martedì 12 aprile 2011

Immigrazione: Ue, Maroni e Mr B 'perchè restarci'?

Scritto per Il Fatto Quotidiano del 12/04/2011

C’è chi parla a vanvera e dice sciocchezze. E c’è chi parla invano, anche se dice le cose giuste. Anche perché, nell’Italia del Grande Fratello e dell’Isola dei Famosi, oltre che del bunga-bunga, concionare con toni da comizio, se possibile in tv, conquista più attenzione e più consensi che proporre una riflessione a mezza voce. Così, ha un bel raccomandarsi il presidente della Repubblica che il governo e i ministri, a cominciare dal premier, non scherzino sull’Europa, “senza neppure prendere in considerazione posizioni di ritorsione o di dispetto a addirittura ipotesi di separazione”.

Giorgio Napolitano ha appena fatto conoscere il suo pensiero che il ministro dell’interno Maroni, uscito con le pive nel sacco dalla riunione a Lussemburgo del Consiglio dei Ministri dell’Ue sull’immigrazione, subito innesca la solita solfa: “L’Italia è lasciata sola a fare quello che deve fare e che continuerà a fare. Mi chiedo se davvero abbia un senso continuare in questa situazione a fare parte dell’Unione europea”. E, tanto per non farsi mancare un po’ di populismo ad effetto, aggiunge: “l’Ue è un’Istituzione che si attiva per salvare le banche e per dichiarare la guerra, ma che, quando c’è da esprimere solidarietà concretamente a un Paese in difficoltà come oggi è l’Italia, si nasconde”.

E, del resto, che cosa ci si può aspettare da Maroni, se, sabato, in visita a Lampedusa, Berlusconi aveva dato la stura al nuovo tormentone (Italia dentro o fuori l’Ue) dicendo: “Si deve fare i conti con la realtà e con il fatto che l’Europa o è qualcosa di vero e di concreto, oppure non è. E allora meglio ritornare a dividerci e ciascuno a inseguire le proprie paure e i propri egoismi”. E poi giù a insistere che il problema dell’immigrazione è europeo e che la Francia e la Germania “non possono non convenire sulla necessità di agire insieme” per affrontare “uno tsunami umano” (e dagli con le visioni apocalittiche, dopo che il ministro degli esteri Frattini e lo stesso Maroni fanno a gara da mesi a terrorizzare noi e i partner europei con predizioni di esodi “biblici” o “epocali”, oggettivamente sproporzionate rispetto ai 25mila finora arrivati, con ipotesi francamente risibili d’infiltrazioni terroristiche su quei barconi della disperazione e spesso della sventura).

Allora, è proprio vero che l’Europa non ascolta il ‘grido di dolore’, e adesso la minaccia neppure velata di secessione, che arriva dalla Roma di Mr B, e magari dalla Milano di Bossi, più forte ancora che da Lampedusa? Cerchiamo di capire la situazione, senza imbrogliare: l’Italia vuole che i partner condividano il peso dell’arrivo dall’Africa del Nord di migliaia di poveracci –circa 25mila finora-, in gran parte tunisini alla ricerca di un lavoro e di un futuro e in parte etiopi, somali o di altra nazionalità alla ricerca di asilo perché in fuga da guerre, dittature, violazioni dei diritti dell’uomo. Per questi ultimi, ci sono regole di accoglienza che tutti i Paesi Ue rispettano (e l’Italia, attualmente, ha un numero di richiedenti asilo dell’ordine di un decimo rispetto a Francia o Germania, a popolazioni sostanzialmente confrontabili). Per i tunisini, le regole della Convenzione di Schengen non ne prevedono l’ingresso: non vanno accolti, ma rispediti. Giusto o sbagliato che sia, questa è la regola: magari va cambiata, ma bisogna farlo insieme, non con iniziative unilaterali. E, come ha ricordato a più riprese negli ultimi giorni la Commissione europea, anche per iscritto, al governo italiano, l’espediente dei permessi di soggiorno temporanei, così che i tunisini da noi ‘sdoganati’ possano andarsene tutti in Francia, debbono rispettare regole ben precise –altrimenti, non valgono ai fini della libera circolazione-. E, ieri a Lussemburgo, Parigi e Berlino non hanno fatto altro che ribadire questa posizione: niente furbizie e rispetto delle regole, confermando l’impegno a rafforzare la missione Frontex a Lampedusa e a contribuire allo sviluppo della Tunisia.

Ma le parole dell’Europa, che non saranno alate, ma sono concrete e, comunque, precise, ancorate ai patti che l’Italia ha firmato, alimentano nella maggioranza rancori dalle tinte elettoralistiche. Se Napolitano chiede di “non scherzare” con l’Europa, Maroni rilancia: “Certo che con l’Europa non si scherza, ma quando l’Italia chiede aiuto per i rimpatri, per i pattugliamenti, per bloccare i flussi e per fare investimenti in Tunisia, mi pare che qualcosa non funzioni se la risposta è ‘cara Italia, pensaci tu’, Mi pare che, se l’Europa è questa, francamente ‘meglio soli che male accompagnati’”. E avanti con questa idea di giocare da soli, in linea con Calderoli che vuole portare a casa i soldati in Libano: un po’ come il ragazzino che, quando la partita andava male, prende il pallone che è suo e lo porta a casa, così non gioca più nessuno.

Che sia chiara una cosa: a Bruxelles, nessuno vuole l’Italia fuori dall’Ue, anche se molti, quasi tutti, vorrebbero nell’Ue un’Italia più affidabile e più credibile, capace di rispettare le regole del gioco e, magari, di proporne una modifica, con la forza di un campione d’europeismo come avveniva, pur non sempre virtuosamente, nella Prima Repubblica e negli anni dei sacrifici per entrare nell’euro.

L’opposizione denuncia un governo “vittima della sua propaganda”, “irrilevante in Europa”. E basta scorrere la stampa estera per rendersi conto che c’è la consapevolezza nell’Unione della necessità d’affrontare il problema innescato dal ‘domino dei satrapi’ nel Sud del Mediterraneo: La soluzione, però, è più Europa, non meno Europa, o zero Europa, come lasciano invece intendere Mr B e Maroni. “Se l’Unione europea non ha né una politica estera né una politica di difesa comuni, nessuno si può meravigliare che non abbia una politica dell’immigrazione comune”, scrive El Pais in un editoriale intitolato “Sconcerto europeo”: l’Ue stretta tra “impotenza ed egoismo nazionale”. E, allora, pensiamo europeo, come invita a fare il presidente Napolitano; e non ‘pensiamo amministrative’, come paiono fare il premier e i suoi ministri.

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