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giovedì 6 dicembre 2012

Clima: Doha chiama Parigi 2015, ora solo rattoppi a vecchi accordi

Scritto per l'Indro lo 06/12/2012

Da tempo, le conferenze internazionali sui cambiamenti climatici e il riscaldamento globale hanno un minimo comune denominatore costante: passano gli anni, cambiano i luoghi, ma il risultato è (quasi)  sempre lo stesso, un nulla di fatto; oppure, sentenzia l’eurodeputato leghista Oreste Rossi, un “buco nell'acqua” –e, considerato che l’incontro è a Doha, l’espressione è molto ardita-.

Il che non vuol dire che non si facciano passi avanti. Ma nulla di adeguato alla portata del problema, nulla di decisivo, insomma: solo rattoppi a vecchi accordi ormai sdruciti. 

Ufficialmente, i lavori di Doha si chiuderanno solo domani; e, forse, ci saranno anche questa volta gli ormai consueti negoziati supplementari notturni tra venerdì e sabato. Il segretario della Convenzione dell'Onu sui cambiamenti climatici, Christiana Figueres, vuole fare approvare testi sull'estensione al 2020 del periodo di impegni del protocollo di Kyoto e sui principi di un’intesa globale sulla riduzione delle emissioni di gas serra da ratificare nel 2015 e avviare poi nel 2020.

E, così, già si guarda ai prossimi appuntamenti. La Francia si candida a ospitare nel 2015 quella che s’annuncia come la “grande conferenza” delle Nazioni Unite sul clima, che dovrebbe produrre il più ambizioso accordo mai concluso nella lotta contro il riscaldamento globale. La conferma viene dal ministro degli esteri Laurent Fabius: il governo francese –precisa l’ex premier- intende muoversi “con uno spirito collettivo”. La candidatura di Parigi era stata avanzata, a settembre, dal presidente François Hollande.

Che quello del 2015 sia l’appuntamento che conta è chiaro dal 2011: allora a Durban, in Sud Africa, la comunità internazionale s’impegnò a pervenire nel 2015 a un accordo globale che coinvolga tutti i Paesi e specialmente i due grandi inquinatori, Stati Uniti e Cina, per tentare di contenere di 2 gradi il riscaldamento del pianeta.ù

Una scossa emotiva ai lavori un po’ disincantati di Doha l’ha data il tifone Bopha –i tifoni sono equivalente nel Pacifico degli uragani nell'Atlantico-, che ha investito le Filippine facendo almeno 500 morti, quasi altrettanti scomparsi e oltre 200 mila senza tetto. Il capo della delegazione filippina Naderev Sano ha lanciato un vibrante appello al Mondo intero: “Aprite gli occhi, guardate la realtà in faccia… Basta ritardi, basta scuse…”. Però gli applausi consolatori di tutta l’assemblea non bastano di per sé a innescare la volontà politica perché risposte efficaci al cambiamento climatico si concretizzino qui a Doha, anche se intese ponte, ad esempio sugli aiuti al Paesi in via di sviluppo, sicuramente si troveranno.

Ma, in attesa del 2015, si tratterà di risposte contingenti e non adeguate alla sfida complessiva. Uno dei problemi più spinosi resta quello dell’aiuto finanziario che i Paesi in via di sviluppo sollecitano dai paesi più ricchi per fronteggiare l’impatto del riscaldamento globale: loro chiedono 60 miliardi di dollari di qui al 2015, cioè 20 miliardi l’anno, come somma di transizione tra i 30 miliardi, 10 l’anno, per il triennio 2010-2012 e i 100 miliardi di dollari l’anno promessi per il 2020.

Nelle ultime ore, alcuni Paesi ricchi europei, Gran Bretagna, Germania, Svezia, Danimarca, hanno messo sul piatto 6 miliardi di euro aggiuntivi per il 2013. Ma queste risorse non bastano, dicono i Paesi poveri, tabelle degli impegni alla mano.

Per il momento, i grandi donatori, Usa, Ue, Giappone traccheggiano. Ma alla fine un’intesa ponte uscirà. E potrebbe anche consentire di smaltire qualche residuo di Kyoto 1 e di sbloccare l’ ‘atto 2’ di Kyoto, che sta a cuore soprattutto all'Alleanza dei piccoli stati insulari, quelli più vulnerabili al cambiamento climatico: qui, l’intesa sarebbe poco più che simbolica, riguardando al massimo il 15% dei gas a effetto serra, perché Usa, Canada, Giappone, Russia se ne sono già chiamati fuori. Ma un accordo, della durata tra i 5 e gli 8 anni, basta a tenere vivo il principio della “responsabilità storica” dei Paesi sviluppati nel cambiamento climatico.

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