Il peggio è passato. Anzi, non c’è stato, perché la fine del
mondo annunciata s’è rivelata la bufala prevista. Ma se, di qui alla fine
dell’anno, negli Stati Uniti l’amministrazione democratica e l’opposizione repubblicana
non riusciranno a mettersi d’accordo su tasse e tagli, deficit e debito,
l’impatto sull’economia mondiale non sarà da fine del mondo, ma poco ci manca:
altroché l’effetto sui mercati dei rinvii delle decisioni dei Vertici europei,
che ogni volta allarmano la Casa Bianca.
Aumento delle tasse generalizzato, riduzione della spesa
pubblica e, quindi, tagli ai servizi, colpo di freno alla crescita: questo è lo
scenario apocalittico del 2013 economico-finanziario Usa. Però, nessuno prende
sul serio questa eventualità: tutti danno per scontato che l’intesa, in
extremis, si farà. I negoziati,
infatti, continuano, con le due parti impegnate ad evitare di restare con in
mano il cerino del fallimento. I repubblicani mettono in mora la Casa Bianca:
senza compromesso, in questo contenzioso che va sotto il nome di ‘fiscal
cliff’, le tasse saliranno per tutti, non solo per i ricchi che
l’Amministrazione democratica vuole colpire, facendosi paladina della classe
media.
L’altra sera, nel Congresso di Washington, è andato in scena
l’ennesimo atto di questo braccio di ferro tra il presidente Obama e John
Boehner, il capo dell’opposizione repubblicana che dal 2010 ha la maggioranza alla
Camera. Dopo avere respinto il piano dell’Amministrazione per aumentare le
tasse ai più ricchi, ma solo a partire da un reddito di 400mila dollari l’anno,
i repubblicani non sono riusciti a fare passare il loro progetto, che puntava
sui tagli alla spesa pubblica. Del resto, quel testo non sarebbe sopravvissuto
all’esame del Senato, dove i democratici conservano la maggioranza.
Il confronto deve essere risolto entro la fine dell’anno e
quindi prima dell’insediamento del nuovo Congresso, uscito dall’Election Day
del 6 novembre, dove, comunque, i rapporti di forza tra democratici e repubblicani
sono sostanzialmente invariati. I protagonisti del confronto sono il presidente
Obama, da una parte, che vuole risolvere il contenzioso per poter affrontare a
mani libere e senza condizionamenti di bilancio troppo pesanti il suo secondo
mandato, e Boehner, il deputato dell’Ohio che guida i repubblicani alla Camera
dal 2006 e che è stato, negli ultimi quattro anni, il principale interlocutore
dell’Amministrazione democratica.
Boehner non è di per sé un conservatore radicale e non è
neppure l’espressione del Tea Party, il movimento qualunquista e antitasse che aveva
ottenuto, nelle elezioni di mid-term del 2010, un grande successo. Ma come leader
dell’opposizione alla Camera è comunque condizionato, nel negoziato, dalle
posizioni dei populisti, il cui maggiore interprete, in tema di bilancio e di
fiscalità, è quel Paul Ryan che Obama ha affrontato come candidato alla
vicepresidenza di Mitt Romney nella campagna per il voto di novembre.
Nel negoziato economico e finanziario entrano, come merce di
scambio altre partite. Obama ha appena sacrificato sull’altare repubblicano Susan
Rice, ambasciatore degli Usa all’Onu, candidata a succedere a Hillary Clinton
come segretario di Stato. Al suo posto, Obama imbarca, nel suo team, in un posto
chiave, un ‘pesce lesso’ come il senatore del Massachusetts John Kerry, già candidato
alla presidenza nel 2004, sconfitto da George W. Bush. Lasciando il suo seggio,
Kerry consentirà il ritorno in Senato di una Kennedy, Vicki, vedova di quel Ted
che occupò lo scranno per oltre trent’anni, fino alla morte. A meno che il governatore
del Massachusetts non le preferisca un’altra vecchia gloria della politica
americana, George Dukakis, candidato democratico alla Casa Bianca nel 1988,
sconfitto da Bush padre.
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