Il primo fu Alcide De Gasperi, agli albori della Repubblica:
ci si preparava alle prime elezioni dopo l’entrata in vigore della Costituzione,
quelle famose e decisive per i successivi quaranta e più anni del 18 aprile
1948. Ma, da allora, il rito s’è ripetuto ad ogni legislatura e, nella prima
Repubblica segnata dai tanti governi brevi, a ogni governo. Appena insediato,
il capo dell’Esecutivo, specie se esordiente, si premurava d’andare a
Washington a ricevere l’investitura della Super-Potenza amica e del Grande
Alleato. E, magari, già che c’era, a ricevere ‘istruzioni’ sul da farsi. E non
cambia che il premier fosse dc o laico, ché sia Spadolini che Craxi
rispettarono il rito. Alla vigilia delle elezioni, c’è pure stata la smania di
correre a Washington a ricevere una benedizione. Ma la Casa Bianca è spesso
stata cauta, su questo.
Non certo, però, la prima volta, quando de Gasperi, che
godeva negli Usa d’un notevole sostegno, era l’alfiere della libertà contro
l’avanzata del comunismo. Il premier trentino andò a Washington nel gennaio
1947. Resto dieci giorni negli Stati Uniti, in un viaggio orchestrato da Henry
Luce, padrone del Time, e da sua moglie
Clare Boothe, futura ambasciatrice a Roma, ricevette un’accoglienza di
stampa “trionfale” e tornò con un assegno di 100 milioni di dollari. Quattro
mesi dopo scoppiava la Guerra Fredda
e De Gasperi lasciava comunisti e socialisti fuori dal governo.
L’anno dopo, De Gasperi non ebbe bisogno di tornare in
America prima del voto: Time gli dedicò una copertina; Frank Sinatra ed altri
italo-americani illustri scesero in campo; l’Amministrazione statunitense, e la Cia , erano mobilitate. La Democrazia Cristiana
vinse; e, per 15 anni, l’unico uomo ‘di sinistra’ ammesso nelle ‘stanze dei
bottoni’ italiane fu Giuseppe Saragat, un social-democratico, anti-fascista, ma
protagonista della scissione socialista e, poi, da presidente della Repubblica,
talora più incline ad ascoltare la
Cia che i servizi d’intelligence italiani.
Ad amplificare le attenzioni americane per la politica
italiana, ci abbiamo pure pensato noi: politici e giornalisti. C’è sempre
piaciuto immaginare che la Casa Bianca
mettesse il dito negli ingranaggi delle beghe nostrane. Negli Anni Ottanta, un
grande quotidiano, in un’intervista a Ronald Reagan, gli chiese se le scelte
mediorientali degli Stati Uniti fossero dettate dall’intento di schierarsi in
Italia a favore di Andreotti, o di Craxi, i leader di allora. Reagan non
scoppiò a ridere solo perché l’intervista era scritta: probabilmente, il
presidente non vide mai né le domande né le risposte.
Non che le ingerenze americane siano fantasie. Ci sono fatti
di cronaca a ricordarlo, anche recenti, e fior di libri a documentarlo. Un
classico è Mission to Italy dell’ambasciatore degli Usa in Italia Richard Gardner,
che racconta una fetta degli Anni di Piombo (dal 1977 all’ ’81). Un periodo
anche al centro dell’attenzione di Governo Ombra di Maurizio Molinari, uscito
di recente, che riproduce e analizza i documenti segreti degli Usa sull’Italia
all’epoca del terrorismo. Prima, Ennio Caretto e Bruno Marolo avevano studiato in
Made in Usa quelle che avevano definito “le origini americane della Repubblica
italiana”.
Sotto questo punto di vista, e non solo, la seconda Repubblica
non è stata molto diversa dalla prima. Il primo Berlusconi non aveva un feeling
speciale con Bill Clinton, nonostante l’idillio del Vertice del G8 di Napoli
nel 1994, tre mesi dopo la nomina a premier. Il Berlusconi II, invece, stabilì
subito con George W. Bush un rapporto privilegiato: fu uno dei primi alleati a
mettere a segno il ‘triplete’, cioè a essere ricevuto sia alla Casa Bianca
–normale- che a Camp David, la residenza dei week-end –lì, solo gli amici- che
nel ranch di Crawford in Texas, la residenza di vacanza e personale –lì, solo
gli amici più amici-.
Però, quasi letteralmente il giorno dopo la vittoria di
Prodi nel 2006, alla Casa Bianca c’era già Giuliano Amato, uno che ha
l’inglese, l’intelligenza e l’esperienza per esservi ben accolto: incontrò
Steve Hadley, il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e
tutto il suo staff.
Il Berlusconi III andò liscio con Bush, ormai a fine corsa,
ma non trovò mai la sintonia con Obama, che, dopo la gaffe dell’abbronzato, le
traversie del Vertice del G8 all’Aquila, le attenzioni persino smaccate alla
scollatura di Michelle a un G20, promosse, fuor di ogni protocollo, a suo
interlocutore il presidente Napolitano e lasciò il premier fuori dalla Casa
Bianca. Fino all’arrivo di Monti. Ma questa non è storia, è cronaca.
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