Dopo una maratona negoziale fatta, soprattutto,
di pause e di confessionali bisbigliati a due a due o a gruppetti, il Consiglio
europeo ha varato l'accordo sul quadro di spesa dell’Unione per il resto del decennio,
dal 2014 al 2020. L'intesa è stata raggiunta su una bozza di compromesso
rivista rispetto a quella presentata all’alba, lasciando però invariate le
cifre di riferimento: 960 miliardi di impegni e 908 di pagamenti, tagli
sostanziali rispetto alle proposte iniziali della Commissione europea (oltre
100 miliardi in meno).
Ma l’accordo non è blindato: il Parlamento
europeo, che deve dire ancora la sua, è, a parole, battagliero. Senza il suo
sì, l’intesa salta. E scatterebbe la formula d’emergenza del cosiddetto
‘esercizio provvisorio’: per assurdo, ci sarebbero più soldi a disposizione in
quel modo che così; però, i capitoli di spesa sarebbero bloccati, senza la
possibilità di spostare i fondi là dove servono.
Quando è arrivato il tweet di Herman van Rompuy, alle 16.22, “Deal done”,
accordo fatto, molti, dopo una vampata d’ottimismo mattutina, avevano già
smesso di crederci: la ritualità comunitaria vuole che, se l’intesa maturata la
notte non si concretizza subito, poi prevalgano passi indietro e ripensamenti;
e, alla fine, ci si ritrova con un nulla di fatto, o con un’altra notte di
trattative davanti, dopo 25 ore di riunione ‘non stop’ e scene di bivacco nella
sala dei lavori.
Invece, stavolta, è andata bene. O, almeno, è andata in porto. Nel suo
tweet, il presidente del Vertice azzarda a caldo un commento positivo. “Valeva
la pensa di aspettare”. Ma, in realtà, le dieci ore trascorse dalla
presentazione della nuova bozza all'accordo finale hanno cambiato ben poco o
nulla: i soldi restano gli stessi, troppi per alcuni –quelli che più contano-,
pochi per la maggior parte. Però, c’era poco da fare: una volta accettato che
la soluzione non poteva essere “un assegno tedesco”, come scriveva a chiare
lettere la stampa teutonica, di alternative ne restavano poche.
La Francia e l’Italia ci guadagnano qualcosa, o ci perdono un po’ meno, per
agricoltura e coesione. E riescono, magari, insieme ad altri, a migliorare, qua
e là, la qualità della spesa. Ma il presidente del Parlamento, Martin Schulz,
un socialdemocratico tedesco, definisce senza ipocrisie il pacchetto “un
inganno incredibile”.
Certo, adesso già li sento, i leader e le loro coorti: tutti a esprimere
soddisfazione con al massimo una punta di rammarico, perché l’intesa c’è e meglio di così non si
poteva fare (con la crisi, e poi quel Cameron che, come la Thatcher, ‘rivuole
indietro i suoi soldi’), anche se ciascuno avrebbe ovviamente voluto fare di
più -ma gli altri non ci stavano-. E qui bisognava decidere all'unanimità: le
minacce di veto piovevano a catinelle, da parte di chi ne ha l’abitudine -la
Gran Bretagna- e pure di chi ne è refrattario –l’Italia- e persino dei piccoli
come la Repubblica ceca.
Fuori dal coro, ci stanno gli europeisti a priori: tutti a menarla con
l’accordo al ribasso, con il fatto che è la prima volta che il bilancio Ue
scende in valore assoluto. Vero. Ma siamo dentro una crisi che ha
ridimensionato anche i bilanci nazionali. Poi ci sono, invece, quelli che ti
fanno i conti in tasca al centesimo, che cosa dai e che cosa prendi. Come se
l’alternativa fosse tra il fare l’Europa, tutta e subito, o rintanarsi in una
micragnosa contabilità nazionale. L’integrazione, invece, procede a piccoli
passi: qualche volta, è già un buon risultato avere evitato di trascinare una
trattativa. E, magari, ci pensa poi il Parlamento a metterci una zeppa; o una
toppa, inventandosi –come c’è l’idea- una clausola di revisione degli accordi
al 2017. Di qui ad allora, la crisi magari sarà passata e i cordoni delle borse
saranno meno stretti.
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